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Storie di vita

Ho sempre amato i libri ed i film di reportage dei giornalisti in guerra.

Da Niente e così sia di Oriana Fallaci, che quasi mi portò in Vietnam al film visto stasera “A private war” che si conclude con la sua morte in Siria.

Mi ritorna in mente il mio caro amico Raffaele sopravvissuto ai missili a Beirut ed al rapimento.

I racconti dei coach in Oman, i loro giocatori siriani che provavano ad occupare le case in cui erano stati ospitati come fratelli. La figlia dell’amico coach rimasta paralizzata per la mancanza di medicine. Ricordo ancora le lacrime del papà nel raccontarmi la tragica storia.

Poi stasera vedo il film che racconta della Siria e mi chiedo degli splendidi amici che mi accompagnarono nel viaggio a Damasco. Quanti saranno sopravvissuti? Loro vedevano nel giovane Assad, medico cresciuto in Inghilterra, una speranza.

Come vorrei incontrare gli amici siriani, dei paesi del Golfo e dell’Oman!

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NCAA Final Four e VAR: cultura dello sport

In Italia si discute insultando gli arbitri mentre nell’NCAA la semifinale che avrebbe qualificato per il titolo Auburn si decide su due fischi contestati con reazioni pacate da parte di tutti.

Questa la reazione del giocatore che ha commesso fallo concedendo i tre tiri liberi agli avversari che hanno dato la vittoria a Virginia:

“Non ho sentito nessun contatto”, ha detto Doughty con gli occhi iniettati di sangue. “Non pensavo di aver fatto fallo, ma gli arbitri pensavano diversamente e, come ho detto, ho fiducia nella loro decisione, amico, sempre. Ecco perché stanno arbitrando le Final Four. Ma avrò un possibilità di guardarlo da solo, e lo giudicherò io stesso. Sarò il mio arbitro personale. ”

A guardare il video il fallo c’è come forse un’altra infrazione precedente, che avrebbe ribaltato il risultato. Ma conta poco è esemplare il modo il cui si esprime una ragazzo di 23 anni e tutti coloro che commentano.

Questo l’articolo completo

http://www.espn.com/mens-college-basketball/story/_/id/26458859/the-foul-call-forever-overshadow-virginia-auburn-final-four

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Taurisano, la storia va insegnata

Era il maggio 1979 quando mi trovai di fronte a lui a sostenere l’esame del corso allenatore nazionale a Rimini. Fu il mio primo contatto diretto ma i suoi insegnamenti avevano già tracciato il solco su cui si muoveva la mia carriera di allenatore.

Basket Boom Story fu il primo libro di basket significativo che ho letto.

Ma la sua proverbiale organizzazione e capacità di strutturare gli allenamenti e una stagione mi era stata passata da Ugo Schaeper che lo aveva seguito nei suoi Camp estivi.

Tau era formidabile nell’organizzare tutto. Ricordo ancora la sua lezione nel luglio 1978 alla palestra della Basilica di San Paolo, sul contropiede. Ogni giocatore aveva un numero ed un compito ben definito, nelle dimostrazioni c’era qualcuno che rischiò di restare sul campo a furia di correre.

Solo dopo scoprii quel monumento dell’insegnamento che è “La pallacanestro ” con una descrizione perfetta di ogni fondamentale.

Da lontano intimoriva ma quando dopo qualche anno mi ritrovai al suo fianco a Chianciano scelto come assistente, grazie a Santi Puglisi, scoprii un uomo straordinario.

Come tutti i grandissimi, semplice, leale, diretto, disponibile, da allora è diventato un mio riferimento nella vita sportiva e personale.

A Cantù era diventato famoso per aver costruito una squadra con tanti ragazzi del vivaio ed aver dato uno stile di gioco che è rimasto tale per decenni: il contropiede di Cantù con Marzorati e Recalcati è indimenticabile, come la mitica foto del muro di Cantù, emblema della sua capacità di giocare con i centri.

La sua difesa era preparata in ogni singolo aspetto, individuale e zona. Ricordo che proprio a Chianciano mi spiegò le due difese che tanto ci aiutarono quell’anno: la 21 e la 12. Erano semplici si mostrava una 2-3 per poi passare ad una 1-3-1 per adattarsi allo schieramento avversario, e viceversa dalla 1-3-1 si passava a 2-3.

Si fece stampare dei quadernoni in cui era possibile riportare ogni allenamento con esercizi e annotazioni pre e post prestazione.

Tutto era preparato all’inizio della stagione ma era uno schema su cui lui sapeva adattarsi con grande duttilità.

Grande inventore di esercizi funzionali al nostro gioco, ne ricordo uno per tutti “Invertire ” il classico esercizio di 2c2, 3c3 e 4c4 per lavorare sul contropiede.

A Napoli si ambientò subito, forse per i suoi antenati napoletani, divenne più scugnizzo di tutti. Andare in macchina con lui era una esperienza da terrore, si infilava ovunque pronto a rispondere in dialetto a qualunque protesta di noi malcapitati napoletani.

Tra le tante sue conoscenze due erano proverbiali: i funghi e la cucina unita alla conoscenza dei vini. Con lui mi sono appassionato a vino e cucina.

Trovava funghi ovunque, riconoscendo ogni specie, proverbiali i porcini e gli ovoli trovati a Cuma sotto l’Acropoli, o i 5 kg di porcini e coprinus comatus trovati nel villaggio turistico di Taranto dove giocammo un torneo, Marco Bonamico lo prese in giro per mesi per la loro descrizione e forma.

Perché una delle caratteristiche di Tau era proprio questa: aveva il massimo rispetto da tutti, ma era capace di scherzare con tutti.

Fu il primo a portare le squadre a Bormio, al Rezia da Maurizio Gandolfi, eravamo trattati come re, ci si allenava duramente senza sentirlo. Sempre variazioni per la preparazione fisica, imposta anche allo staff, ci arrampicavamo ovunque con i pulmini del Rezia, Val dei Vitelli, Oga, laghi del Cancano… Ma c’era spazio per il relax, a tavola si mangiava di tutto, immancabili i suoi funghi, i giocatori si divertivano fuori del campo e noi giocavamo interminabili partite di carte. Si inventò anche un gioco di carte le cui regole furono scritte su di un tovagliolo, lo “Sfaccimmo”. Una sorta di bridge semplificato. Con il grande Gigi Tufano, Renato Volpicelli giocavamo le ore.

Portò NAPOLI in A1 con una capacità straordinaria di costruire la squadra negli anni, di scegliere americani funzionali al nostro gioco, scoperti con la sua rete di amicizie negli USA. Ricostruì il Muro con Toni Fuss, Lee Johnson e Rudy Woods, che una sera ritrovammo infilati in una 126 con Max Antonelli ed una ragazza, malcapitata proprietaria dell’auto, in giro per Bormio!!

Memorabili i suoi duetti con Nicola De Piano, che riuscì a condurre con grande maestria nel mondo del basket. Ricordo sempre che mai un giocatore fu preso senza il suo consenso. Il Tau organizzava il roster in modo di avere sempre due giocatori, un anno servivano un 4 ed un 5. Il Tau stilò la sua lista con in cima Meneghin poi Polesello ed infine Fuss e Righi. Arrivarono gli ultimi due ma li aveva scelti lui.

Il mio cruccio era l’impossibilità di avere giovani napoletani in squadra, se si esclude Massimo Sbaragli, ma il Tau mi diceva, “Roberto al presidente non interessa, per cui è inutile andare contro le sue direttive generali preferisce giocatori di fuori Napoli “. Molti si sono allenati solo Massimo ha giocato. Era bravo a trovare giocatori giovani da lontano, assecondando la volontà di Depi, sua la scoperta di Riccio Ragazzi, Clivio Righi, Simone Lottici, e tanti USA giovanissimi.

Altra maestria era la capacità di gestire quelli che lui definiva “lazzaroni”. Bastone e carota e rendevano a mille, italiani e stranieri.

Come dimenticare le settimane dei playoff per salire in A1 in cui Rudy Woods era introvabile…

Nella sua organizzazione era geniale, univa attacchi tradizionali a giochi innovativi, ricordo il gioco con il blocco cieco in allontanamento dopo un passaggio consegnato, disegnato per Lee Johnson, che portava straordinari risultati.

Passò due volte per Napoli, la seconda volta lo convincemmo Enzo Caserta ed io, per evitare un arrivo poco gradito per le modalità con cui si propose un altro coach, in apparenza amico, in realtà sibillino. Ma fu un successo!

Scrivendo mi vengono in mente mille episodi, ma mi piace arrivare al suo addio al basket, deciso in autonomia, quando avrebbe potuto dare ancora molto, ma quel mondo non gli piaceva più!

Si lanciò in un’attività imprenditoriale, Il Podologo , un’azienda che fu tra le primissime a produrre plantari studiati con una pedana ad hoc per ciascuno. Ed anche li fu un grande successo!

Si trasferì nella casa che si fece costruire a Polpenazze del Garda ( per prenderlo in giro io dicevo che si era trasferito a polpettone sul Garda), e, dopo qualche collaborazione con il CNA, restò spettatore di un mondo che aveva contribuito a rendere grande.

Da allora i miei rapporti sono rimasti intensi, quando ho avuto momenti difficili o felici li ho sempre voluti condividere con lui, ricevendo consigli saggi.

Ho collaborato con il Tau nella stesura dell’Albero del Basket, una monumentale pubblicazione sui fondamentali, in cui i miei ragazzi napoletani hanno fatto da modelli fotografici.

Il Tau ha continuato con le passioni della sua vita, le piante, i funghi, avendo al suo fianco la straordinaria Germana, compagna di sempre, le figlie ed i nipoti, alcuni dei quali sono un legame forte tra me e lui. Hanno preso la sua rigorosità, la sua testardaggine nel raggiungere gli obiettivi, il cuore immenso, la capacità di andare oltre ogni vicissitudine.

Il Tau è ancora un guerriero nel suo maniero circondato dall’affetto e dal rispetto di tutti. Meriterebbe che tutti conoscessero la sua storia, senza di lui il basket moderno sarebbe diverso. E chiudo con uno dei complimenti più belli che uno dei suoi più grandi allievi, e mio maestro, Valerio Bianchini mi fece, presentandomi come assistente della nazionale sperimentale che nel 1985 andò in Cina: “Roberto è un predestinato è nato nel 1953, perché dico questo? Nel 1923 è nato Cesare Rubini, nel 1933 Arnaldo Taurisano, nel 1943 sono nato io, che il 1953 gli sia di buon auspicio!” Io ho solo avuto l’onore di lavorare ed essere voluto bene da tutti questi grandi, neanche lontanamente mi posso paragonare a loro, ma senza queste persone io non sarei Roberto di Lorenzo.

Mauro Berruto, un uomo, un allenatore, un esempio.

Mi è già successo di citare Mauro Berruto nel mio blog, una persona che apprezzo per i suoi principi. Nel comunicato in cui spiega le sue dimissioni c’è una lezione per tutti.

Oggi ho comunicato al Presidente Carlo Magri la decisione di rimettere il mio mandato di Commissario Tecnico della Squadra Nazionale di pallavolo nelle mani Sue e del Consiglio Federale.
Il clima generatosi intorno alla squadra, in relazione al provvedimento disciplinare nei confronti di quattro atleti da me deciso in occasione della Final Six di World League a Rio de Janeiro, mi ha reso consapevole di non sentire più quella fiducia completa nel mio operato che sempre ho sentito e che è condizione necessaria per poter svolgere questo straordinario compito.

Il dolore di rinunciare al mio ruolo di CT a un mese dell’obiettivo verso il quale tutto il mio lavoro era stato indirizzato nel quadriennio olimpico, non è negoziabile rispetto alla difesa di valori che ritengo fondamentali quali il rispetto delle regole e della maglia azzurra. Valori che ritengo altresì fondamentali nella mia visione di sport.

La commovente risposta della squadra successiva alla mia decisione (la vittoria contro la Serbia e, ancora di più, la coraggiosa sconfitta contro la Polonia campione del mondo) mi restituisce la certezza che sui valori tutto si fonda.

Tengo tuttavia, amaramente, questa certezza solo per me, ringraziando di cuore i 13 protagonisti di quelle due partite, perché il coro di chi ha letto nella mia decisione incapacità di gestione, inadeguatezza al ruolo, danno economico o addirittura causa scatenante di una brutta immagine per il nostro movimento mi fa pensare che il rispetto delle regole sia diventato merce negoziabile davvero.

Se così è il mio passo indietro è dovuto, perché non è e non può essere questo il mio modo di intendere lo sport e fare il Commissario Tecnico.

Ringrazio tutti coloro che hanno lavorato con me in questi anni, atleti e membri dello staff, perché tutti mi hanno insegnato delle cose. Un pensiero particolare va ai 30 atleti che in questi quattro anni e poco più hanno esordito con la maglia azzurra. E’ un record di cui vado molto fiero perché regalare questa gioia non ha davvero prezzo.

Ringrazio tutti gli staff delle Squadre Nazionali giovanili e in particolare Mario Barbiero, motore inesauribile della nostra pallavolo maschile giovanile. Fin dal primo minuto ho voluto dimostrare come la nazionale Seniores fosse parte di un progetto comune che incomincia a quattordici anni con i Regional Days. Le nostre squadre giovanili stanno da qualche tempo brillando in Europa e nel mondo e considero questo fatto, insieme alla riforma dell’Under 13, un’ulteriore medaglia di cui andare fiero.

Ringrazio il Presidente Magri per aver realizzato, il 17 dicembre del 2010, il mio più gigantesco sogno di bambino. Sono passati da quel giorno anni, medaglie, vittorie, sconfitte. 134 volte ho sentito suonare l’inno di Mameli con il cuore che scoppiava di orgoglio e di rispetto per quella bandiera distesa davanti a me.

Tengo tutti questi ricordi ma ne scelgo uno: la fotografia scattata sul podio olimpico di Londra. L’onore più grande che potesse immaginare un ragazzo che aveva incominciato ad allenare in un oratorio della sua città.

Ho un ultimo desiderio che devo soprattutto ai miei figli Francesco e Beatrice: vorrei spiegare loro che il nuovo modo di comunicare fondato sulle opinioni espresse sulle pubbliche piazze virtuali dei social network, ha fatto sì che siano state di me scritte cose che spero loro non leggeranno mai. Dietro ai ruoli ci sono persone e il principio del rispetto della persona dovrebbe guidare anche questo nuovo modo di comunicare. Mi piacerebbe che Francesco e Beatrice crescessero con l’idea che rispettare le regole e le persone è talmente bello da essere rilassante. Mi piacerebbe che andassero orgogliosi del fatto che il loro papà, partendo dal nulla, abbia avuto l’onore infinito di rappresentare il nostro Paese. Mi piacerebbe fossero orgogliosi del fatto che, al di là di 7 medaglie vinte, il loro papà possa essere ricordato per averlo fatto sempre e comunque con onestà. Con fatica, con onestà e con la schiena dritta.

Mauro

Il Blog di Mario Berruto

“Allenare”, la mia lezione al Corso Allenatore Nazionale di Bormio 2015

Quest’anno al Corso Allenatore Nazionale di Bormio,  ho svolto un intervento in cui ho portato agli allenatori le testimonianze dei grandi Maestri che mi hanno accompagnato ed il mio modo di intendere il più bel lavoro del mondo: Allenare!

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Il video completo della lezione

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Le slide della lezione

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La visione di Bianchini e Tavcar

La prima volta di Ettore

Un canestro in più o in meno

Campioni d’Europa

Quando la volpe non arriva all’uva: il coraggio di dire “non riesco”!

Ho chiesto alla nostra Tonia Bonacci, di scrivere un articolo su uno dei maggiori problemi che si incontra allenando i giovani, “i limiti“.

Tonia, psicologa, psicoterapeuta SIPI, esperta in psicologia dello sport, ha collaborato con il Progetto Vivi Basket dal 2005, proseguendo con me il lavoro iniziato con la Polisportiva Partenope nel 1998, creandosi un bagaglio eccezionale di esperienze sul campo.

Io credo che si possa allargare questo discorso sui limiti a tanti contesti della società attuale. E come sempre Tonia  in questo suo intervento ci regala interessanti spunti di riflessione.

Credo fermamente nell’idea che lo sport formi e aiuti a crescere come persona, fin dalle primissime fasce di età.

Ciò che accomuna chi fa sport è il trovarsi di fronte ad una difficoltà. Per quanto ci si diverta, si stia insieme, si condividano obiettivi, per quanto si possa usare il contesto sportivo per fare nuove amicizie, chi fa sport prima o poi, che lo si voglia o meno, proverà l’esperienza di essere posto di fronte ad una difficoltà, ad un ostacolo che non si sa affrontare, almeno non all’inizio, e che si vuole e che si cerca di superare per imparare, per diventare più abili.

Quell’ostacolo si chiama limite.

Può essere rappresentato da un attrezzo da maneggiare in un certo modo, un gesto tecnico, una lettura tattica, un avversario, sé stessi o il proprio vissuto. 

La spinta a tentare di trascendere il limite si chiama agonismo. Oggi si fa una gran confusione, soprattutto nello sport giovanile, tra agonismo e la richiesta-pretesa di vincere a tutti i costi.

Agonismo significa: tendenza a superare un limite.

Vincere a tutti i costi significa: negare che ci siano limiti e immaginare di essere onnipotenti, cioè io vinco sempre contro tutto e tutti.

Lo sport sano, l’agonismo sano, insegna

  • gestire sé stessi dinanzi al limite;
  • a tentare di trascenderlo da soli e in collaborazione con altri.

Ma è un’esperienza complessa, perché necessita del coraggio di dire a sé stessi: non riesco, ma voglio provare ancora e ancora, fino a poterci riuscire. 

Cosa serve per riuscirci? 

  • che ci sia un adulto (ovvero non solo una persona più grande di me) che sia capace di riconoscere con me il fatto che io “non riesca”
  • che questa persona sappia insegnarmi, sostenermi
  • che sappia anche accettare che posso non riuscire a superare quel gradino
  • che sappia starmi accanto per trovare nuove strade

Ma di questi adulti ce ne sono pochi, soprattutto sui campi dove fanno sport i bambini e i ragazzi. In questi spazi ci sono spesso genitori e allenatori che davanti alla difficoltà del proprio piccolo atleta tendono a deresponsabilizzarlo e a deresponsabilizzare loro stessi. È colpa dell’arbitro, del genitore che non lo educa, dell’allenatore che non capisce niente, del dirigente che ha preferenze e non dà a tutti le stesse opportunità, del campo, del clima (?!?). Oppure inizia l’ipercritica: si fa un’analisi di tutti gli errori commessi, spesso fatta con rabbia e delusione.

Quali sono le possibili conseguenze di questi comportamenti? 

Il rischio è di vedere ragazzini

  • che credono di essere campioni già pronti per le squadre nazionali
  • che al primo ostacolo si arrabbiano, spesso in modo plateale
  • che assumono atteggiamenti snob (del tipo “non mi meritano in questa palestra!”)
  • che si disperano
  • che svalutano sé stessi oltre il senso di realtà
  • che abbandonano l’attività sportiva.

Invece, raramente ho sentito dire:

  • É vero, hai giocato male, secondo te come mai?
  • Cosa puoi fare per migliorare?
  • Come posso aiutarti?

Credo fortemente che:

  • lo sport insegni a vivere e che l’agonismo sia un valore che aiuti i bambini a diventare adulti, capaci di confrontarsi con le difficoltà e con i successi. Che insegni e a comprendere che la fatica e l’impegno portano a diventare sempre più bravi, ma non necessariamente ad essere un campione.
  • sia illusorio e pericoloso insegnare ad un bambino che “può” tutto; è altrettanto illusorio e pericoloso insegnare ad un ragazzo che non è necessario faticare per ottenere risultati, dato che lui “ha talento”.
  • il compito di un buon genitore e di un buon allenatore sia di permettere ai giovani atleti di non brancolare nel buio nei momenti difficili, ma di essere sostenuti nel raggiungere obiettivi adeguati alla propria crescita.
  • che per fare ciò occorra avere i piedi a terra: si deve avere il senso di realtà, che ci fa confrontare con le risorse che abbiamo e con le difficoltà che ne ostacolano l’espressione, ma si deve anche insegnare a mantenerlo questo senso di realtà.

Come si sviluppa il senso di realtà? Attraverso l’allenamento al confronto.

  • con me stesso
  • con i compagni e avversari
  • con un adulto

Confronto con me stesso: devo considerare i miei progressi, analizzando cioè da dove sono partito a dove sono arrivato (a livello fisico, tecnico e mentale), in un anno, poi in un semestre, quindi in un mese, e in una seduta di allenamento. 

Confronto con i compagni e con gli avversari: perché  sono loro che ci fanno “da specchio”. 

Confronto con un adulto di cui ci si fida: 

  • perché mi dice la verità e lo fa per aiutarmi
  • perché è competente e si prende la responsabilità di insegnarmi cose che sono adeguate al mio fisico e alla mia capacità del momento
  • perché so che tutto ciò che fa lo fa per il mio bene e non mi mette in condizioni di pericolo
  • perché non mi denigra né mi allontana se sbaglio, ma pretende impegno
  • perché sa fermarsi e fermarmi quando esagero e sa sostenermi se mi svaluto per paura
  • perché non mi usa per realizzare i suoi sogni infranti

L’allenamento Integrato

Credo fermamente nell’utilità degli allenamenti integratidove il livello tecnico-tattico si integra a quello fisico, ed entrambi i livelli si integrano a quello relazionale.

È l’unico modo per mettere al centro la persona (atleta) e la sua relazione con i suoi pari (avversari e compagni) e con gli adulti di riferimento (genitori e allenatori in primis), per capire come allenare quel bambino o ragazzo, come migliorare la performance senza mai perdere di vista il suo bene, e ciò che lo aiuta a diventare una persona migliore ed un bravo atleta.

Ma penso che un allenamento integrato non sia per tutti gli allenatori:

– non si può improvvisare: occorre che gli allenatori studino, si formino, si aggiornino con esperti

– non esclude la sofferenza: è solo attraverso la rabbia, la paura e il dispiacere di non riuscire  che si può arrivare alla gioia di vedersi migliorato

– non si accetta per inerzia, è uno stile di vita in cui il rispetto per se stesso e per l’altro sono sullo steso piano e non si può rinunciare all’uno o all’altro

– non lavora per ottenere tutto e subito ma garantisce a tutti il tempo adatto per sviluppare competenze e dare opportunità

– non crea false illusioni ma aiuta a sviluppare una consapevolezza di sé, delle proprie modalità relazionali e del proprio modo di fare performance in campo e nella vita

– non dà per scontato nulla ma pone, ogni volta, davanti lo specchio e chiede di mettersi in discussione con intelligenza, per pensare, pensare insieme e risolvere problemi in campo e fuori

Per questo fare sport è un gioco serio!

Buon divertimento, buon allenamento, e buona vita!

Ettore Messina in una bella intervista su corriere.it

Ma qual è la via degli Spurs al basket?
«Una filosofia della pazienza, non saltare mai dei passi, cercare giocatori che magari altrove non hanno avuto successo e invece qui si combinano perfettamente. L’attenzione alle persone. Il senso del noi. L’incoraggiamento al dissenso».

Una bella intervista di Alessandro Pasini, inviato a San Antonio (Texas) su www.corriere.it

Nell’arena degli Spurs, in panchina con Ettore Messina mentre lì a pochi passi i campioni Nba si scaldano per il match con gli Houston Rockets. La «leggenda europea», come chiamano Messina negli States, è da quest’anno l’assistente allenatore della leggenda americana, Gregg Popovich. Due partite da solo le ha già guidate, e vinte, a novembre. E un giorno, si dice, tutto questo sarà suo.

«Se ne è parlato molto, però sinceramente credo che la successione sia lontana. Non solo con me, ma in assoluto. Popovich è bello carico e deciso a continuare».
Quelle due partite da capo allenatore – il primo non Usa della storia dell’Nba – sono però l’inizio di qualcos’altro, o no?
«È vero che tutti coloro che sono passati di qui hanno avuto la grande chance, dunque sarei bugiardo se dicessi che non ci penso. Non ora però».
E la paventata fine di uno storico ciclo dopo 5 titoli in 15 anni?
«Duncan potrebbe continuare una stagione, Ginobili anche, la squadra sta giocando bene, ne abbiamo vinte 9 di fila, siamo in entrati in forma playoff (iniziano il 18, ndr), pronti a difendere il titolo. Pensieri negativi non ci sono. Io ho tre anni di contratto: potrebbe essere interessante anche partecipare alla futura fase del rinnovamento. Questo è un club che ha strategie chiare per aprire un altro ciclo».
Nonostante le sue 4 Euroleghe, 10 campionati tra Italia e Russia, l’argento con gli azzurri agli Europei più tutto il resto, lei parla spesso di «venerazione» per Popovich.
«A volte al suo fianco mi sento piccolo».
Perché?
«Per il modo in cui prepara la partita, la cura dei dettagli, gli scenari che disegna, la freddezza di analisi: Pop è lucido persino nell’incazzatura…».
Il coach perfetto.
«Già. Tu lo senti e dici: vabbé, io sono scarso, e pazienza».
Se lo dice Messina, figuriamoci gli altri. Ma qual è la via degli Spurs al basket?
«Una filosofia della pazienza, non saltare mai dei passi, cercare giocatori che magari altrove non hanno avuto successo e invece qui si combinano perfettamente. L’attenzione alle persone. Il senso del noi. L’incoraggiamento al dissenso».
Ovvero?
«Popovich dice spesso: dammi un’opinione diversa, ne discutiamo e troviamo la soluzione. Magari a cena».
Laureato in Economia, lei nei seminari ai manager 15 anni fa insegnava che «la squadra in cui tutti si vogliono bene non esiste, e se esiste perde». La sua filosofia era già Pop prima di incontrare il maestro.
«Era così a Bologna, è così qui. Popovich discute anche con i suoi uomini carismatici come Parker, Ginobili e Duncan. Il confronto è un passaggio decisivo in ogni gruppo di lavoro».
Gli Spurs sono il tiki-taka del basket?
«Un paragone interessante. Anche per noi il passaggio è un fondamentale almeno quanto il tiro: devi sapere come, quando e a chi passare. In quel senso sì, lo siamo».
E poi siete internazionali: otto stranieri in rosa.
«Sì, ma la variabile decisiva è la continuità. Lo straniero qui non passa e va, si radica. Parker è a San Antonio dal 2001, Ginobili dal 2002. Storie lunghe. Come Danilovic a Bologna o D’Antoni a Milano».
Dalla via Emilia al Texas, secoli dopo ha ritrovato Ginobili e Belinelli.
«Curiosa la vita. Manu ha lo stesso entusiasmo di 13 anni fa. Marco lo avevo lasciato bambino e l’ho ritrovato uomo».
Lo Sperone che l’ha impressionata di più?
«Duncan».
Leonard, il migliore delle Finali 2014, potrà essere il suo erede?
«Difficile, personalità molto diverse. Però è un giocatore che ogni giorno ci sta stupendo un po’ di più».
Chi è il suo numero uno assoluto del 2015?
«Harden. Mi inquieta molto per come domina certe partite (non questa però, che i Rockets perderanno di 12 punti, ndr)».
Qual è il plus del sistema sportivo Usa?
«Meritocrazia. Quando sento parlare di quote giocatori comincio a preoccuparmi. Predeterminare così non serve, non solo nello sport».
Jordi Bertomeu, a.d. dell’Eurolega, al Corriere ha detto che il basket italiano è immobile.
«La realtà è quella, l’analisi è complessa. Concordo sulla questione palazzi: ci sono strutture bellissime ovunque in Europa tranne che da noi. Ma lo sport è lo specchio del sistema politico. In Italia c’è da tempo un chiaro problema di leadership. E se manca quella…».
Dieci anni all’estero tra Madrid, Mosca, Los Angeles e San Antonio significano…
«Sul piano lavorativo un’esperienza bellissima. Certo, l’Italia un po’ mi manca. Però penso che ormai il nostro sia diventato un meraviglioso paese dove andare solo in vacanza. E mi spiace».
San Antonio, invece, com’è?
«Mi ricorda i tempi di Treviso: molto verde, gente tranquilla, la scuola per mio figlio a 10 minuti. Città ideale».
Lei tornerebbe in Nazionale?
«Per ora c’è un eccellente allenatore e ciò che conta è conquistare l’Olimpiade. Se poi un giorno le cose dovessero cambiare e me lo chiedessero, ne sarei onorato».
Ma sarebbe possibile una gestione part time, metà in America, metà in azzurro?
«Non mi pongo adesso il problema».
Metta World Peace ha detto che la stima molto.
«Ai Los Angeles Lakers fu lui che quando mi vide la prima volta mi chiese chi avevo allenato, per capire chi fossi. Lui è un grande: un buon ragazzo al quale ogni tanto si chiude la vena».
Metta ha anche detto che gli Spurs possono rivincere il titolo.
«In corsa ci siamo di sicuro».
Metta World Peace e l’Italia: strana coppia?
«Ci serve sicuramente. Gli auguro di conservare serenità e entusiasmo fino alla fine della sua avventura».
A proposito: se pure lei dovesse cambiare nome, che cosa sceglierebbe?
«Gregorio Popovich».

LA COLPA… È DEGLI ALTRI!

Ho trovato questo interessante articolo sul sito Allfootball scritto da Isabella Gasperini.

Criticare l’allenatore o i compagni di squadra danneggia il piccolo calciatore! Si cresce imparando a conoscere e superare i propri limiti, altrimenti si alimentano le insicurezze del bambino.

Capita spesso di sentir giudicare l’operato dell’istruttore di Scuola Calcio da parte dei genitori. A volte accade semplicemente per parlare un po’ e colmare con due chiacchiere il tempo di una partita o di allenamento. Altre volte, però, capita involontariamente di condire questo atteggiamento con giudizi, non sempre positivi, sull’istruttore e sul suo operato. Ora, ognuno può fare e dire ciò che vuole a patto che questo avvenga nel rispetto degli altri, e soprattutto del proprio figlio. In tal senso dare un giudizio sul mister di fronte a lui può rischiare di renderlo insicuro e indeciso in campo. Questo perché se un adulto di cui il bambino si fida ciecamente, trattandosi del proprio papà o della propria mamma, descrive in un certo modo una persona, per lui quella è una realtà indiscutibile, non un’opinione soggettiva di colui che la esprime. Per esempio se un bambino sente dire da mamma o da papà: “Questa maglietta rossa non ti sta bene” lui molto spesso non riesce a capire che si tratta di un giudizio personale. Pensa che il rosso sia un colore che non gli si addice in modo assoluto. Così se uno dei genitori critica l’istruttore o un compagno di squadra in virtù del suo punto di vista, per il figlio che ascolta ciò che afferma il proprio genitore rappresenta la verità assoluta. Dare giudizi personali su altri piccoli calciatori o sull’istruttore in presenza del giovane atleta, rischia di confonderlo inquinando oltretutto il rapporto che lui stabilisce con gli altri.

CRITICARE NON FA RIMA CON EDUCARE

A volte, con troppa superficialità, dopo una partita si tende a criticare le decisioni dell’allenatore o la prestazione della squadra. In questi casi oltre a inquinare l’idea che il bambino si fa degli altri, si svalorizzano dei punti di riferimento come l’istruttore o un compagno di squadra nei quali lui crede molto. Avere intorno persone che criticano induce per emulazione ad acquisire l’abitudine di disapprovare tutti, proiettando spesso sugli altri le responsabilità di una sconfitta o di un evento sportivo, come per esempio un’ammonizione, e così sfuma l’occasione di riconoscere le proprie manchevolezze. In questo senso può capitare che invece di rendersi conto di non aver giocato bene il bambino impari a giustificarsi adducendo capri espiatori. Ci si abitua così a dare la colpa all’arbitro, al mister, come si vede fare al papà o alla mamma. Un genitore che non riconosce i limiti del figlio e ha l’abitudine di concentrarsi sulla performance di altri non fa che rinforzare nel proprio bambino la brutta abitudine di spostare l’attenzione altrove invece di imparare da una sana autocritica. Così facendo si elude al giovane atleta l’opportunità di riflettere e capire dove ha sbagliato traendo da ciò degli spunti di crescita.

Basket, istruttori, genitori, ragazzi…

Due miei allenatori hanno ritrovato una mia vecchia lezione sempre interessante…! 
 GENITORI, ISTRUTTORI E PSICOLOGIA NELLO SPORT GIOVANILE
 La mia esperienza nasce da giocatore (scarso) con un padre sportivo di alto livello, che però non ha voluto che io praticassi una serie di sport per motivi “sociali”. Ho scelto il basket e ne ho fatto la mia vita. Come giocatore ho giocato pochissimo, allenandomi molto ed ottenendo un posto fisso solo quando sono diventato allenatore, presidente e giocatore della società in cui giocavo… Per giocare ho fatto l’allenatore e… ho smesso di studiare. 
 Varie le mie esperienze ma fondamentale l’indicazione di Sandro Gamba che mi indicò l’importanza della psicologia dello sport. Ho allenato giovani a Napoli, la serie A a Napoli, le nazionali giovanili, la serie A a Fabriano, per poi tornare alle giovanili a Napoli da direttore tecnico e dirigente. 
 Credo che il modello insegnatomi da Tommaso Biccardi aiuti molto a comprendere che in questo momento la capacità di relazionarsi ai ragazzi e quindi alle loro famiglie sia determinante nella riuscita del nostro lavoro.

Lo sport rappresenta una realtà in cui responsabilità individuale, rispetto delle regole si coniuga a divertimento in una situazione di scelta personale del ragazzo (anche se qui ci sarebbe da discutere). 

 Si dice che lo sport sia scuola di vita, per me lo può essere a patto che si metta una grande attenzione nell’insegnarlo e nel praticarlo. 
 Un’altra premessa, molte cose di cui parlerò spesso non si riesce a metterle in opera per una serie di situazioni contingenti, ma credo che la coscienza di ciò che deve essere fatto sia il primo passo per raggiungere un obiettivo.

Come arrivano i ragazzi a fare sport: 

  •  Messaggi pubblicità: dai corn flakes, ai giornali, ai compagni di scuola, alla Tv, ai video giochi dove ci si disegna campione (play station)! 
  •  Spinta del genitore: ex atleta, sue mancate aspirazioni 
  • Compagni di scuola, amici 
 Questi messaggi sono molto spesso improntati alla competitività esasperata, al vincere ed primeggiare tra gli altri come unica strada di fare sport.

Il non riuscire nello sport è un vedersi diminuito come immagine verso gli altri (genitori, compagni) e verso se stessi. E’ meglio andare male a scuola che non riuscire nello sport (secchione!)

Il riuscire all’opposto da spesso una prospettiva sbagliata di se stessi nella vita ed una sensazione di intoccabilità!

Da tutto ciò nasce una situazione di stress che va gestita dagli istruttori e dai genitori attraverso un corretta comunicazione tra: 

 1) Atleti – Istruttori 
  •  E’ la relazione più importante e può essere danneggiata da improprie critiche da parte dei genitori. 

 2) Genitori – Istruttori: quanto il tipo di rapporto influisce in modo diretto sull’atteggiamento e sul comportamento del giovane atleta nei confronti dello sport, non è facile definire ma la sua importanza è a mio parere sostanziale. 

  • Cosa il coach deve comunicare ai genitori:
  1. Filosofia di gioco del coach 
  2. Aspettative sul ragazzo
  3. Organizzazione degli allenamenti 
  • Cosa comunicare all’allenatore 
  1. Avere un primo contatto positivo presentandosi e proponendo una collaborazione 
  2. Preoccupazioni particolari: comunicate direttamente al coach (problemi caratteriali, fisici, etc.). 
  3. Problemi pratici (concomitanze di orari, studio, etc.) 
  4. Specifiche preoccupazioni riguardo alla filosofia ed alle aspettative del coach. 
  • Di cosa discutere con il coach 
  1. Il trattamento riservato al figlio, mentalmente e fisicamente 
  2. Modi per aiutarlo a crescere 
  3. Preoccupazioni per il suo comportamento 
  • Di cosa non parlare con l’allenatore 
  1. Tempo di gioco 
  2. Strategie di gioco 
  3. Schemi chiamati 
  4. Di altri giocatori 
  • Come fare se ci sono cose di cui parlare con l’allenatore 
  1. Fissare un appuntamento lontano dalla partita e dall’allenamento, in una situazione tranquilla e riservata.

 3) Genitori – Atleti 

  • Non cercare di vivere attraverso tuo figlio. 
  • Se credi che l’allenatore non stia svolgendo un buon lavoro, non comunicarlo a tuo figlio. 
  • Non dare suggerimenti tecnici durante la partita.

    d) Non dare un cattivo esempio urlando contro arbitri ed avversari. 

Scegliere lo sport giusto: 

  • Molti esperti sostengono che i ragazzi devono scegliere lo sport, a mio parere è vero solo in parte poiché sono troppi i messaggi che bombardano i ns. giovani e come genitore si dovrebbe riuscire ad aiutarli. 
  • Non vediamo solo gli sport di squadra, esistono altri sport in cui si può partecipare con più facilità non scartiamo a priori l’atletica, la canoa, la vela o altri sport che tra l’altro hanno il vantaggio di poter essere praticati per tutta la vita. 

Fattori nella scelta dello sport: 

  • Il figlio sceglie perché…. Amici, genitori, tv, etc. 

In un secondo momento si rende conto che non riesce, diamogli l’opportunità di cambiare. Cerchiamo di capire perché vuole cambiare: il coach, la competitività, l’inadeguatezza. 

  • Il carattere svolge una funzione molto importante, non insistere con un figlio timido a partecipare ad uno sport di squadra quando per lui la corsa di lunga distanza è una situazione con cui si trova bene. 
  • La domanda centrale è “mio figlio si diverte nel fare sport?” 

La scelta dell’allenatore

Insieme alle abilità tecniche i ragazzi imparano l’importanza di riuscire in un compito, il valore di avere una passione sportiva le ricompense del lavoro di gruppo, la gioia di raggiungere un obiettivo, l’importanza di sforzarsi per eccellenza, l’appoggio di un adulto premuroso ed il gusto dolce di realizzare il successo. 

Il programma va in difficoltà quando l’allenatore stressa eccessivamente il concetto di vittoria mettendo in secondo piano gli altri benefici dello sport. L’allenatore deve 
  • Saper insegnare e non solo avere conoscenze tecniche 
  • Dare entusiasmo, con la voce, con l’esempio sul campo 
  • Saper ascoltare, avere capacità di comunicare: Il rispetto nasce anche dal dimostrare la volontà di ascoltare gli atleti per tirare fuori che cosa hanno dentro e che aiuto richiede. 
  • Comprendere l’importanza dei piccoli problemi, la gelosia tra compagni per esempio. 

Il genitore deve:

  •  Aiutare il figlio a sviluppare una sana aspettativa personale, accettando successi e fallimenti che derivano dal praticare uno sport. Questo è uno dei suoi compiti principali. 
  • Parla con tuo figlio lontano dalla partita o dalla gara. 
  • Cerca di stimolarlo a parlare ad esprimere ciò che sente, ciò che gli piace dell’allenamento, le sue esperienze. Ci vorrà tempo perché inizi a parlare.
  • Cerca di creare l’auto coscienza di ciò che ha fatto di buono, anche se la squadra ha perso. Se ha giocato male cerca di parlare di cosa ha imparato dagli errori fatti e cosa fare per migliorare in vista delle prossime partite. 
  • Comprendere la sensibilità dei ragazzi e quando arriva di cattivo umore condividi i suoi sentimenti, fagli sentire che hai capito. Dagli una prospettiva più ampia della situazione. 

 Cosa fare con un figlio non atleta: ci sono tante altre possibilità di vivere lo sport, allenatore, giornalista, statistiche, arbitro…!

“Primo l’atleta, secondo vincere” ma il vincere ha un suo valore, si deve imparare dalle vittorie come dalle sconfitte ed occorre spiegarlo ai ragazzi che percepiscono la differenza.

Il modo in cui il ragazzo reagisce allo stress dipende dall’allenatore e dai genitori.

In una ricerca di USA TODAY confermata da molti psicologi si sottolinea che una gran parte dei problemi è creata da genitori che hanno imparato ciò che sanno dello sport dal guardare lo sport professionistico in televisione e si aspettano che i loro figli usino le stesse strategie e tecniche usate dai professionisti. Da genitore ed allenatore bisogna ricordare che non ci si può aspettare da un ragazzo di essere un mini professionista, innanzitutto è un bambino e poi un giovane atleta.

Ma quale che sia il programma sportivo di tuo figlio la cosa più importante è di trasmettergli un amore incondizionato. 

 Negli Stati uniti è uscito un libro, che sta avendo un gran successo, che titola: Will You Still Love Me If I Don’t Win? (Mi vorrai bene se non vinco?)

La Memoria nel presente

10426772_10152536616899047_8105166545993473800_nIn occasione della festa di chiusura di Vivi Basket che si è svolta a maggio 2014 ci era venuta a trovare Alberta Levi Temin, ebrea, novantaquattrenne, mamma di un mio caro amico, scampata ai rastrellamenti nel 1942.

Ho pensato che la sua testimonianza avrebbe potuto aiutare a crescere i nostri ragazzi.

La accompagnai al centro del campo ed iniziò a parlare. Siamo rimasti tutti ipnotizzati. I bambini, anche più piccoli, ascoltavano con grande attenzione, affascinati dalle sue parole. La realtà dura del suo racconto in palestra è esplosa:

«Io sono ebrea ma questo non fa nessuna differenza, Io non sono un’eroina, io mi sono salvata ma la mia gioventù è stata molto dolorosa. Ho perso tante persone care. Per quarant’anni non ho parlato. Ma qualcuno ha osato dire che i campi di eliminazione non c’erano stati. Non ce l’ho fatta più ed ho cominciato a parlare.

La vita è bella e bisogna viverla con gioia, e deve essere bella per tutti. Se avete un compagno di banco, di gioco, di studi, che è diverso da voi, che parla una lingua diversa, che ha un altro colore, lui è uguale a voi, perché siamo tutti uguali nel genere umano».

Perché la memoria deve essere testimoniata nel presente, in un momento in cui invece sta diventando normale essere contro: sud, nord, immigrati, cristiani, musulmani, bianchi, neri, gialli. Non ci si rende conto che non c’è grande differenza da ciò che è successo in quei terribili anni. Perciò dobbiamo ricordare, dobbiamo pensare. Altrimenti la giornata della memoria diventa una delle tante ricorrenze di maniera.