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Ettore Messina: la sintesi dell’allenare

Su Facebook mi passa un’immagine con un’ntervista ad Ettore dopo lo straordinario evento a Piazza Santo Stefano a Bologna della settimana passata.

Damiano Montanari riporta il pensiero di Ettore che come sempre riesce a sintetizzare in poche parole quelle cose che tanti di noi, forse, pensano, senza riuscire poi ad esprimerle così semplicemente e chiaramente. Parole semplici, concetti chiari, ma, come sempre, difficili da accettare, perché vuol dire accettare i propri limiti, autodisciplina.

“Oggi si parla molto di fare squadra, una metafora abusata. Il vero significato è avere voglia di sedersi in panchina senza rompere le scatole, fare un passaggio in più per un compagno, fare un lavoro non visibile. Per riuscirci servono regole di autodisciplina. Per molti anni sono stato un grillo parlante che ha anche preso qualche scarpa in faccia. Ma sono stato fortunato, perché alla fine ho trovato gente che mi ha ascoltato. Per vincere la voglia di ascoltarsi è fondamentalePopovic, il mio head coach a San Antonio, unanimemente riconosciuto come il miglior allenatore dell’NBA, dice sempre che la sua fortuna è avere campioni come Ginobili e Duncan che gli hanno permesso di allenarli. Avere un Duncan che, dopo un rimprovero, si alza in piedi e dice: “L’avrà detto male, ma ha ragione lui”, è basilare. Perché alla fiducia tecnica si affianca quella relazionale.

La chiave per gestire il conflitto è il confronto “Come diceva Eraclito, il non confronto è l’anticamera dell’autodistruzione. Non si può essere amici dei propri giocatori. Io lo sono diventato di BrunamontiDanilovic e Rigaudeau, quando loro hanno smesso di giocare. Creare prima un finto cameratismo è sbagliato e scorretto nei loro confronti. Serve una comunicazione diretta, senza triangolazioni. E bisognerebbe voler bene ai propri giocatori anche quando ci si scontra: Popovic ci riesce, io no.”
                    Ettore Messina intervista di Damiano Montanari
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Quando la volpe non arriva all’uva: il coraggio di dire “non riesco”!

Ho chiesto alla nostra Tonia Bonacci, di scrivere un articolo su uno dei maggiori problemi che si incontra allenando i giovani, “i limiti“.

Tonia, psicologa, psicoterapeuta SIPI, esperta in psicologia dello sport, ha collaborato con il Progetto Vivi Basket dal 2005, proseguendo con me il lavoro iniziato con la Polisportiva Partenope nel 1998, creandosi un bagaglio eccezionale di esperienze sul campo.

Io credo che si possa allargare questo discorso sui limiti a tanti contesti della società attuale. E come sempre Tonia  in questo suo intervento ci regala interessanti spunti di riflessione.

Credo fermamente nell’idea che lo sport formi e aiuti a crescere come persona, fin dalle primissime fasce di età.

Ciò che accomuna chi fa sport è il trovarsi di fronte ad una difficoltà. Per quanto ci si diverta, si stia insieme, si condividano obiettivi, per quanto si possa usare il contesto sportivo per fare nuove amicizie, chi fa sport prima o poi, che lo si voglia o meno, proverà l’esperienza di essere posto di fronte ad una difficoltà, ad un ostacolo che non si sa affrontare, almeno non all’inizio, e che si vuole e che si cerca di superare per imparare, per diventare più abili.

Quell’ostacolo si chiama limite.

Può essere rappresentato da un attrezzo da maneggiare in un certo modo, un gesto tecnico, una lettura tattica, un avversario, sé stessi o il proprio vissuto. 

La spinta a tentare di trascendere il limite si chiama agonismo. Oggi si fa una gran confusione, soprattutto nello sport giovanile, tra agonismo e la richiesta-pretesa di vincere a tutti i costi.

Agonismo significa: tendenza a superare un limite.

Vincere a tutti i costi significa: negare che ci siano limiti e immaginare di essere onnipotenti, cioè io vinco sempre contro tutto e tutti.

Lo sport sano, l’agonismo sano, insegna

  • gestire sé stessi dinanzi al limite;
  • a tentare di trascenderlo da soli e in collaborazione con altri.

Ma è un’esperienza complessa, perché necessita del coraggio di dire a sé stessi: non riesco, ma voglio provare ancora e ancora, fino a poterci riuscire. 

Cosa serve per riuscirci? 

  • che ci sia un adulto (ovvero non solo una persona più grande di me) che sia capace di riconoscere con me il fatto che io “non riesca”
  • che questa persona sappia insegnarmi, sostenermi
  • che sappia anche accettare che posso non riuscire a superare quel gradino
  • che sappia starmi accanto per trovare nuove strade

Ma di questi adulti ce ne sono pochi, soprattutto sui campi dove fanno sport i bambini e i ragazzi. In questi spazi ci sono spesso genitori e allenatori che davanti alla difficoltà del proprio piccolo atleta tendono a deresponsabilizzarlo e a deresponsabilizzare loro stessi. È colpa dell’arbitro, del genitore che non lo educa, dell’allenatore che non capisce niente, del dirigente che ha preferenze e non dà a tutti le stesse opportunità, del campo, del clima (?!?). Oppure inizia l’ipercritica: si fa un’analisi di tutti gli errori commessi, spesso fatta con rabbia e delusione.

Quali sono le possibili conseguenze di questi comportamenti? 

Il rischio è di vedere ragazzini

  • che credono di essere campioni già pronti per le squadre nazionali
  • che al primo ostacolo si arrabbiano, spesso in modo plateale
  • che assumono atteggiamenti snob (del tipo “non mi meritano in questa palestra!”)
  • che si disperano
  • che svalutano sé stessi oltre il senso di realtà
  • che abbandonano l’attività sportiva.

Invece, raramente ho sentito dire:

  • É vero, hai giocato male, secondo te come mai?
  • Cosa puoi fare per migliorare?
  • Come posso aiutarti?

Credo fortemente che:

  • lo sport insegni a vivere e che l’agonismo sia un valore che aiuti i bambini a diventare adulti, capaci di confrontarsi con le difficoltà e con i successi. Che insegni e a comprendere che la fatica e l’impegno portano a diventare sempre più bravi, ma non necessariamente ad essere un campione.
  • sia illusorio e pericoloso insegnare ad un bambino che “può” tutto; è altrettanto illusorio e pericoloso insegnare ad un ragazzo che non è necessario faticare per ottenere risultati, dato che lui “ha talento”.
  • il compito di un buon genitore e di un buon allenatore sia di permettere ai giovani atleti di non brancolare nel buio nei momenti difficili, ma di essere sostenuti nel raggiungere obiettivi adeguati alla propria crescita.
  • che per fare ciò occorra avere i piedi a terra: si deve avere il senso di realtà, che ci fa confrontare con le risorse che abbiamo e con le difficoltà che ne ostacolano l’espressione, ma si deve anche insegnare a mantenerlo questo senso di realtà.

Come si sviluppa il senso di realtà? Attraverso l’allenamento al confronto.

  • con me stesso
  • con i compagni e avversari
  • con un adulto

Confronto con me stesso: devo considerare i miei progressi, analizzando cioè da dove sono partito a dove sono arrivato (a livello fisico, tecnico e mentale), in un anno, poi in un semestre, quindi in un mese, e in una seduta di allenamento. 

Confronto con i compagni e con gli avversari: perché  sono loro che ci fanno “da specchio”. 

Confronto con un adulto di cui ci si fida: 

  • perché mi dice la verità e lo fa per aiutarmi
  • perché è competente e si prende la responsabilità di insegnarmi cose che sono adeguate al mio fisico e alla mia capacità del momento
  • perché so che tutto ciò che fa lo fa per il mio bene e non mi mette in condizioni di pericolo
  • perché non mi denigra né mi allontana se sbaglio, ma pretende impegno
  • perché sa fermarsi e fermarmi quando esagero e sa sostenermi se mi svaluto per paura
  • perché non mi usa per realizzare i suoi sogni infranti

L’allenamento Integrato

Credo fermamente nell’utilità degli allenamenti integratidove il livello tecnico-tattico si integra a quello fisico, ed entrambi i livelli si integrano a quello relazionale.

È l’unico modo per mettere al centro la persona (atleta) e la sua relazione con i suoi pari (avversari e compagni) e con gli adulti di riferimento (genitori e allenatori in primis), per capire come allenare quel bambino o ragazzo, come migliorare la performance senza mai perdere di vista il suo bene, e ciò che lo aiuta a diventare una persona migliore ed un bravo atleta.

Ma penso che un allenamento integrato non sia per tutti gli allenatori:

– non si può improvvisare: occorre che gli allenatori studino, si formino, si aggiornino con esperti

– non esclude la sofferenza: è solo attraverso la rabbia, la paura e il dispiacere di non riuscire  che si può arrivare alla gioia di vedersi migliorato

– non si accetta per inerzia, è uno stile di vita in cui il rispetto per se stesso e per l’altro sono sullo steso piano e non si può rinunciare all’uno o all’altro

– non lavora per ottenere tutto e subito ma garantisce a tutti il tempo adatto per sviluppare competenze e dare opportunità

– non crea false illusioni ma aiuta a sviluppare una consapevolezza di sé, delle proprie modalità relazionali e del proprio modo di fare performance in campo e nella vita

– non dà per scontato nulla ma pone, ogni volta, davanti lo specchio e chiede di mettersi in discussione con intelligenza, per pensare, pensare insieme e risolvere problemi in campo e fuori

Per questo fare sport è un gioco serio!

Buon divertimento, buon allenamento, e buona vita!

Josè Maria Buceta: Insegnare basket a ragazzi under 14

Sulla time line di Twitter stamattina mi è comparso un tweet di Josè Maria Buceta, spagnolo, psicologo dello sport ed allenatore di basket. L’ho conosciuto molti anni fa ad un convegno della FIBA a Madrid. Allenatore di basket, psicologo, professore universitario, ha collaborato con diversi top club, uno per tutti il Real Madrid, per diverse federazioni ed in diversi sport. 

Sono andato su suo profilo ed ho trovato questo link, che vi propongo, in cui, in un Corso organizzato dalla FIBA, parla di come allenare ragazzi al di sotto dei 14 anni. Il video è in inglese ma molto semplice da comprendere e, come a volte accade, dice cose in apparenza scontate ma fondamentali e spesso dimenticate.

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I libri scritti da Josè Maria Buceta

Basket, istruttori, genitori, ragazzi…

Due miei allenatori hanno ritrovato una mia vecchia lezione sempre interessante…! 
 GENITORI, ISTRUTTORI E PSICOLOGIA NELLO SPORT GIOVANILE
 La mia esperienza nasce da giocatore (scarso) con un padre sportivo di alto livello, che però non ha voluto che io praticassi una serie di sport per motivi “sociali”. Ho scelto il basket e ne ho fatto la mia vita. Come giocatore ho giocato pochissimo, allenandomi molto ed ottenendo un posto fisso solo quando sono diventato allenatore, presidente e giocatore della società in cui giocavo… Per giocare ho fatto l’allenatore e… ho smesso di studiare. 
 Varie le mie esperienze ma fondamentale l’indicazione di Sandro Gamba che mi indicò l’importanza della psicologia dello sport. Ho allenato giovani a Napoli, la serie A a Napoli, le nazionali giovanili, la serie A a Fabriano, per poi tornare alle giovanili a Napoli da direttore tecnico e dirigente. 
 Credo che il modello insegnatomi da Tommaso Biccardi aiuti molto a comprendere che in questo momento la capacità di relazionarsi ai ragazzi e quindi alle loro famiglie sia determinante nella riuscita del nostro lavoro.

Lo sport rappresenta una realtà in cui responsabilità individuale, rispetto delle regole si coniuga a divertimento in una situazione di scelta personale del ragazzo (anche se qui ci sarebbe da discutere). 

 Si dice che lo sport sia scuola di vita, per me lo può essere a patto che si metta una grande attenzione nell’insegnarlo e nel praticarlo. 
 Un’altra premessa, molte cose di cui parlerò spesso non si riesce a metterle in opera per una serie di situazioni contingenti, ma credo che la coscienza di ciò che deve essere fatto sia il primo passo per raggiungere un obiettivo.

Come arrivano i ragazzi a fare sport: 

  •  Messaggi pubblicità: dai corn flakes, ai giornali, ai compagni di scuola, alla Tv, ai video giochi dove ci si disegna campione (play station)! 
  •  Spinta del genitore: ex atleta, sue mancate aspirazioni 
  • Compagni di scuola, amici 
 Questi messaggi sono molto spesso improntati alla competitività esasperata, al vincere ed primeggiare tra gli altri come unica strada di fare sport.

Il non riuscire nello sport è un vedersi diminuito come immagine verso gli altri (genitori, compagni) e verso se stessi. E’ meglio andare male a scuola che non riuscire nello sport (secchione!)

Il riuscire all’opposto da spesso una prospettiva sbagliata di se stessi nella vita ed una sensazione di intoccabilità!

Da tutto ciò nasce una situazione di stress che va gestita dagli istruttori e dai genitori attraverso un corretta comunicazione tra: 

 1) Atleti – Istruttori 
  •  E’ la relazione più importante e può essere danneggiata da improprie critiche da parte dei genitori. 

 2) Genitori – Istruttori: quanto il tipo di rapporto influisce in modo diretto sull’atteggiamento e sul comportamento del giovane atleta nei confronti dello sport, non è facile definire ma la sua importanza è a mio parere sostanziale. 

  • Cosa il coach deve comunicare ai genitori:
  1. Filosofia di gioco del coach 
  2. Aspettative sul ragazzo
  3. Organizzazione degli allenamenti 
  • Cosa comunicare all’allenatore 
  1. Avere un primo contatto positivo presentandosi e proponendo una collaborazione 
  2. Preoccupazioni particolari: comunicate direttamente al coach (problemi caratteriali, fisici, etc.). 
  3. Problemi pratici (concomitanze di orari, studio, etc.) 
  4. Specifiche preoccupazioni riguardo alla filosofia ed alle aspettative del coach. 
  • Di cosa discutere con il coach 
  1. Il trattamento riservato al figlio, mentalmente e fisicamente 
  2. Modi per aiutarlo a crescere 
  3. Preoccupazioni per il suo comportamento 
  • Di cosa non parlare con l’allenatore 
  1. Tempo di gioco 
  2. Strategie di gioco 
  3. Schemi chiamati 
  4. Di altri giocatori 
  • Come fare se ci sono cose di cui parlare con l’allenatore 
  1. Fissare un appuntamento lontano dalla partita e dall’allenamento, in una situazione tranquilla e riservata.

 3) Genitori – Atleti 

  • Non cercare di vivere attraverso tuo figlio. 
  • Se credi che l’allenatore non stia svolgendo un buon lavoro, non comunicarlo a tuo figlio. 
  • Non dare suggerimenti tecnici durante la partita.

    d) Non dare un cattivo esempio urlando contro arbitri ed avversari. 

Scegliere lo sport giusto: 

  • Molti esperti sostengono che i ragazzi devono scegliere lo sport, a mio parere è vero solo in parte poiché sono troppi i messaggi che bombardano i ns. giovani e come genitore si dovrebbe riuscire ad aiutarli. 
  • Non vediamo solo gli sport di squadra, esistono altri sport in cui si può partecipare con più facilità non scartiamo a priori l’atletica, la canoa, la vela o altri sport che tra l’altro hanno il vantaggio di poter essere praticati per tutta la vita. 

Fattori nella scelta dello sport: 

  • Il figlio sceglie perché…. Amici, genitori, tv, etc. 

In un secondo momento si rende conto che non riesce, diamogli l’opportunità di cambiare. Cerchiamo di capire perché vuole cambiare: il coach, la competitività, l’inadeguatezza. 

  • Il carattere svolge una funzione molto importante, non insistere con un figlio timido a partecipare ad uno sport di squadra quando per lui la corsa di lunga distanza è una situazione con cui si trova bene. 
  • La domanda centrale è “mio figlio si diverte nel fare sport?” 

La scelta dell’allenatore

Insieme alle abilità tecniche i ragazzi imparano l’importanza di riuscire in un compito, il valore di avere una passione sportiva le ricompense del lavoro di gruppo, la gioia di raggiungere un obiettivo, l’importanza di sforzarsi per eccellenza, l’appoggio di un adulto premuroso ed il gusto dolce di realizzare il successo. 

Il programma va in difficoltà quando l’allenatore stressa eccessivamente il concetto di vittoria mettendo in secondo piano gli altri benefici dello sport. L’allenatore deve 
  • Saper insegnare e non solo avere conoscenze tecniche 
  • Dare entusiasmo, con la voce, con l’esempio sul campo 
  • Saper ascoltare, avere capacità di comunicare: Il rispetto nasce anche dal dimostrare la volontà di ascoltare gli atleti per tirare fuori che cosa hanno dentro e che aiuto richiede. 
  • Comprendere l’importanza dei piccoli problemi, la gelosia tra compagni per esempio. 

Il genitore deve:

  •  Aiutare il figlio a sviluppare una sana aspettativa personale, accettando successi e fallimenti che derivano dal praticare uno sport. Questo è uno dei suoi compiti principali. 
  • Parla con tuo figlio lontano dalla partita o dalla gara. 
  • Cerca di stimolarlo a parlare ad esprimere ciò che sente, ciò che gli piace dell’allenamento, le sue esperienze. Ci vorrà tempo perché inizi a parlare.
  • Cerca di creare l’auto coscienza di ciò che ha fatto di buono, anche se la squadra ha perso. Se ha giocato male cerca di parlare di cosa ha imparato dagli errori fatti e cosa fare per migliorare in vista delle prossime partite. 
  • Comprendere la sensibilità dei ragazzi e quando arriva di cattivo umore condividi i suoi sentimenti, fagli sentire che hai capito. Dagli una prospettiva più ampia della situazione. 

 Cosa fare con un figlio non atleta: ci sono tante altre possibilità di vivere lo sport, allenatore, giornalista, statistiche, arbitro…!

“Primo l’atleta, secondo vincere” ma il vincere ha un suo valore, si deve imparare dalle vittorie come dalle sconfitte ed occorre spiegarlo ai ragazzi che percepiscono la differenza.

Il modo in cui il ragazzo reagisce allo stress dipende dall’allenatore e dai genitori.

In una ricerca di USA TODAY confermata da molti psicologi si sottolinea che una gran parte dei problemi è creata da genitori che hanno imparato ciò che sanno dello sport dal guardare lo sport professionistico in televisione e si aspettano che i loro figli usino le stesse strategie e tecniche usate dai professionisti. Da genitore ed allenatore bisogna ricordare che non ci si può aspettare da un ragazzo di essere un mini professionista, innanzitutto è un bambino e poi un giovane atleta.

Ma quale che sia il programma sportivo di tuo figlio la cosa più importante è di trasmettergli un amore incondizionato. 

 Negli Stati uniti è uscito un libro, che sta avendo un gran successo, che titola: Will You Still Love Me If I Don’t Win? (Mi vorrai bene se non vinco?)