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Storie di vita

Ho sempre amato i libri ed i film di reportage dei giornalisti in guerra.

Da Niente e così sia di Oriana Fallaci, che quasi mi portò in Vietnam al film visto stasera “A private war” che si conclude con la sua morte in Siria.

Mi ritorna in mente il mio caro amico Raffaele sopravvissuto ai missili a Beirut ed al rapimento.

I racconti dei coach in Oman, i loro giocatori siriani che provavano ad occupare le case in cui erano stati ospitati come fratelli. La figlia dell’amico coach rimasta paralizzata per la mancanza di medicine. Ricordo ancora le lacrime del papà nel raccontarmi la tragica storia.

Poi stasera vedo il film che racconta della Siria e mi chiedo degli splendidi amici che mi accompagnarono nel viaggio a Damasco. Quanti saranno sopravvissuti? Loro vedevano nel giovane Assad, medico cresciuto in Inghilterra, una speranza.

Come vorrei incontrare gli amici siriani, dei paesi del Golfo e dell’Oman!

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Taurisano, la storia va insegnata

Era il maggio 1979 quando mi trovai di fronte a lui a sostenere l’esame del corso allenatore nazionale a Rimini. Fu il mio primo contatto diretto ma i suoi insegnamenti avevano già tracciato il solco su cui si muoveva la mia carriera di allenatore.

Basket Boom Story fu il primo libro di basket significativo che ho letto.

Ma la sua proverbiale organizzazione e capacità di strutturare gli allenamenti e una stagione mi era stata passata da Ugo Schaeper che lo aveva seguito nei suoi Camp estivi.

Tau era formidabile nell’organizzare tutto. Ricordo ancora la sua lezione nel luglio 1978 alla palestra della Basilica di San Paolo, sul contropiede. Ogni giocatore aveva un numero ed un compito ben definito, nelle dimostrazioni c’era qualcuno che rischiò di restare sul campo a furia di correre.

Solo dopo scoprii quel monumento dell’insegnamento che è “La pallacanestro ” con una descrizione perfetta di ogni fondamentale.

Da lontano intimoriva ma quando dopo qualche anno mi ritrovai al suo fianco a Chianciano scelto come assistente, grazie a Santi Puglisi, scoprii un uomo straordinario.

Come tutti i grandissimi, semplice, leale, diretto, disponibile, da allora è diventato un mio riferimento nella vita sportiva e personale.

A Cantù era diventato famoso per aver costruito una squadra con tanti ragazzi del vivaio ed aver dato uno stile di gioco che è rimasto tale per decenni: il contropiede di Cantù con Marzorati e Recalcati è indimenticabile, come la mitica foto del muro di Cantù, emblema della sua capacità di giocare con i centri.

La sua difesa era preparata in ogni singolo aspetto, individuale e zona. Ricordo che proprio a Chianciano mi spiegò le due difese che tanto ci aiutarono quell’anno: la 21 e la 12. Erano semplici si mostrava una 2-3 per poi passare ad una 1-3-1 per adattarsi allo schieramento avversario, e viceversa dalla 1-3-1 si passava a 2-3.

Si fece stampare dei quadernoni in cui era possibile riportare ogni allenamento con esercizi e annotazioni pre e post prestazione.

Tutto era preparato all’inizio della stagione ma era uno schema su cui lui sapeva adattarsi con grande duttilità.

Grande inventore di esercizi funzionali al nostro gioco, ne ricordo uno per tutti “Invertire ” il classico esercizio di 2c2, 3c3 e 4c4 per lavorare sul contropiede.

A Napoli si ambientò subito, forse per i suoi antenati napoletani, divenne più scugnizzo di tutti. Andare in macchina con lui era una esperienza da terrore, si infilava ovunque pronto a rispondere in dialetto a qualunque protesta di noi malcapitati napoletani.

Tra le tante sue conoscenze due erano proverbiali: i funghi e la cucina unita alla conoscenza dei vini. Con lui mi sono appassionato a vino e cucina.

Trovava funghi ovunque, riconoscendo ogni specie, proverbiali i porcini e gli ovoli trovati a Cuma sotto l’Acropoli, o i 5 kg di porcini e coprinus comatus trovati nel villaggio turistico di Taranto dove giocammo un torneo, Marco Bonamico lo prese in giro per mesi per la loro descrizione e forma.

Perché una delle caratteristiche di Tau era proprio questa: aveva il massimo rispetto da tutti, ma era capace di scherzare con tutti.

Fu il primo a portare le squadre a Bormio, al Rezia da Maurizio Gandolfi, eravamo trattati come re, ci si allenava duramente senza sentirlo. Sempre variazioni per la preparazione fisica, imposta anche allo staff, ci arrampicavamo ovunque con i pulmini del Rezia, Val dei Vitelli, Oga, laghi del Cancano… Ma c’era spazio per il relax, a tavola si mangiava di tutto, immancabili i suoi funghi, i giocatori si divertivano fuori del campo e noi giocavamo interminabili partite di carte. Si inventò anche un gioco di carte le cui regole furono scritte su di un tovagliolo, lo “Sfaccimmo”. Una sorta di bridge semplificato. Con il grande Gigi Tufano, Renato Volpicelli giocavamo le ore.

Portò NAPOLI in A1 con una capacità straordinaria di costruire la squadra negli anni, di scegliere americani funzionali al nostro gioco, scoperti con la sua rete di amicizie negli USA. Ricostruì il Muro con Toni Fuss, Lee Johnson e Rudy Woods, che una sera ritrovammo infilati in una 126 con Max Antonelli ed una ragazza, malcapitata proprietaria dell’auto, in giro per Bormio!!

Memorabili i suoi duetti con Nicola De Piano, che riuscì a condurre con grande maestria nel mondo del basket. Ricordo sempre che mai un giocatore fu preso senza il suo consenso. Il Tau organizzava il roster in modo di avere sempre due giocatori, un anno servivano un 4 ed un 5. Il Tau stilò la sua lista con in cima Meneghin poi Polesello ed infine Fuss e Righi. Arrivarono gli ultimi due ma li aveva scelti lui.

Il mio cruccio era l’impossibilità di avere giovani napoletani in squadra, se si esclude Massimo Sbaragli, ma il Tau mi diceva, “Roberto al presidente non interessa, per cui è inutile andare contro le sue direttive generali preferisce giocatori di fuori Napoli “. Molti si sono allenati solo Massimo ha giocato. Era bravo a trovare giocatori giovani da lontano, assecondando la volontà di Depi, sua la scoperta di Riccio Ragazzi, Clivio Righi, Simone Lottici, e tanti USA giovanissimi.

Altra maestria era la capacità di gestire quelli che lui definiva “lazzaroni”. Bastone e carota e rendevano a mille, italiani e stranieri.

Come dimenticare le settimane dei playoff per salire in A1 in cui Rudy Woods era introvabile…

Nella sua organizzazione era geniale, univa attacchi tradizionali a giochi innovativi, ricordo il gioco con il blocco cieco in allontanamento dopo un passaggio consegnato, disegnato per Lee Johnson, che portava straordinari risultati.

Passò due volte per Napoli, la seconda volta lo convincemmo Enzo Caserta ed io, per evitare un arrivo poco gradito per le modalità con cui si propose un altro coach, in apparenza amico, in realtà sibillino. Ma fu un successo!

Scrivendo mi vengono in mente mille episodi, ma mi piace arrivare al suo addio al basket, deciso in autonomia, quando avrebbe potuto dare ancora molto, ma quel mondo non gli piaceva più!

Si lanciò in un’attività imprenditoriale, Il Podologo , un’azienda che fu tra le primissime a produrre plantari studiati con una pedana ad hoc per ciascuno. Ed anche li fu un grande successo!

Si trasferì nella casa che si fece costruire a Polpenazze del Garda ( per prenderlo in giro io dicevo che si era trasferito a polpettone sul Garda), e, dopo qualche collaborazione con il CNA, restò spettatore di un mondo che aveva contribuito a rendere grande.

Da allora i miei rapporti sono rimasti intensi, quando ho avuto momenti difficili o felici li ho sempre voluti condividere con lui, ricevendo consigli saggi.

Ho collaborato con il Tau nella stesura dell’Albero del Basket, una monumentale pubblicazione sui fondamentali, in cui i miei ragazzi napoletani hanno fatto da modelli fotografici.

Il Tau ha continuato con le passioni della sua vita, le piante, i funghi, avendo al suo fianco la straordinaria Germana, compagna di sempre, le figlie ed i nipoti, alcuni dei quali sono un legame forte tra me e lui. Hanno preso la sua rigorosità, la sua testardaggine nel raggiungere gli obiettivi, il cuore immenso, la capacità di andare oltre ogni vicissitudine.

Il Tau è ancora un guerriero nel suo maniero circondato dall’affetto e dal rispetto di tutti. Meriterebbe che tutti conoscessero la sua storia, senza di lui il basket moderno sarebbe diverso. E chiudo con uno dei complimenti più belli che uno dei suoi più grandi allievi, e mio maestro, Valerio Bianchini mi fece, presentandomi come assistente della nazionale sperimentale che nel 1985 andò in Cina: “Roberto è un predestinato è nato nel 1953, perché dico questo? Nel 1923 è nato Cesare Rubini, nel 1933 Arnaldo Taurisano, nel 1943 sono nato io, che il 1953 gli sia di buon auspicio!” Io ho solo avuto l’onore di lavorare ed essere voluto bene da tutti questi grandi, neanche lontanamente mi posso paragonare a loro, ma senza queste persone io non sarei Roberto di Lorenzo.

Ettore Messina in una bella intervista su corriere.it

Ma qual è la via degli Spurs al basket?
«Una filosofia della pazienza, non saltare mai dei passi, cercare giocatori che magari altrove non hanno avuto successo e invece qui si combinano perfettamente. L’attenzione alle persone. Il senso del noi. L’incoraggiamento al dissenso».

Una bella intervista di Alessandro Pasini, inviato a San Antonio (Texas) su www.corriere.it

Nell’arena degli Spurs, in panchina con Ettore Messina mentre lì a pochi passi i campioni Nba si scaldano per il match con gli Houston Rockets. La «leggenda europea», come chiamano Messina negli States, è da quest’anno l’assistente allenatore della leggenda americana, Gregg Popovich. Due partite da solo le ha già guidate, e vinte, a novembre. E un giorno, si dice, tutto questo sarà suo.

«Se ne è parlato molto, però sinceramente credo che la successione sia lontana. Non solo con me, ma in assoluto. Popovich è bello carico e deciso a continuare».
Quelle due partite da capo allenatore – il primo non Usa della storia dell’Nba – sono però l’inizio di qualcos’altro, o no?
«È vero che tutti coloro che sono passati di qui hanno avuto la grande chance, dunque sarei bugiardo se dicessi che non ci penso. Non ora però».
E la paventata fine di uno storico ciclo dopo 5 titoli in 15 anni?
«Duncan potrebbe continuare una stagione, Ginobili anche, la squadra sta giocando bene, ne abbiamo vinte 9 di fila, siamo in entrati in forma playoff (iniziano il 18, ndr), pronti a difendere il titolo. Pensieri negativi non ci sono. Io ho tre anni di contratto: potrebbe essere interessante anche partecipare alla futura fase del rinnovamento. Questo è un club che ha strategie chiare per aprire un altro ciclo».
Nonostante le sue 4 Euroleghe, 10 campionati tra Italia e Russia, l’argento con gli azzurri agli Europei più tutto il resto, lei parla spesso di «venerazione» per Popovich.
«A volte al suo fianco mi sento piccolo».
Perché?
«Per il modo in cui prepara la partita, la cura dei dettagli, gli scenari che disegna, la freddezza di analisi: Pop è lucido persino nell’incazzatura…».
Il coach perfetto.
«Già. Tu lo senti e dici: vabbé, io sono scarso, e pazienza».
Se lo dice Messina, figuriamoci gli altri. Ma qual è la via degli Spurs al basket?
«Una filosofia della pazienza, non saltare mai dei passi, cercare giocatori che magari altrove non hanno avuto successo e invece qui si combinano perfettamente. L’attenzione alle persone. Il senso del noi. L’incoraggiamento al dissenso».
Ovvero?
«Popovich dice spesso: dammi un’opinione diversa, ne discutiamo e troviamo la soluzione. Magari a cena».
Laureato in Economia, lei nei seminari ai manager 15 anni fa insegnava che «la squadra in cui tutti si vogliono bene non esiste, e se esiste perde». La sua filosofia era già Pop prima di incontrare il maestro.
«Era così a Bologna, è così qui. Popovich discute anche con i suoi uomini carismatici come Parker, Ginobili e Duncan. Il confronto è un passaggio decisivo in ogni gruppo di lavoro».
Gli Spurs sono il tiki-taka del basket?
«Un paragone interessante. Anche per noi il passaggio è un fondamentale almeno quanto il tiro: devi sapere come, quando e a chi passare. In quel senso sì, lo siamo».
E poi siete internazionali: otto stranieri in rosa.
«Sì, ma la variabile decisiva è la continuità. Lo straniero qui non passa e va, si radica. Parker è a San Antonio dal 2001, Ginobili dal 2002. Storie lunghe. Come Danilovic a Bologna o D’Antoni a Milano».
Dalla via Emilia al Texas, secoli dopo ha ritrovato Ginobili e Belinelli.
«Curiosa la vita. Manu ha lo stesso entusiasmo di 13 anni fa. Marco lo avevo lasciato bambino e l’ho ritrovato uomo».
Lo Sperone che l’ha impressionata di più?
«Duncan».
Leonard, il migliore delle Finali 2014, potrà essere il suo erede?
«Difficile, personalità molto diverse. Però è un giocatore che ogni giorno ci sta stupendo un po’ di più».
Chi è il suo numero uno assoluto del 2015?
«Harden. Mi inquieta molto per come domina certe partite (non questa però, che i Rockets perderanno di 12 punti, ndr)».
Qual è il plus del sistema sportivo Usa?
«Meritocrazia. Quando sento parlare di quote giocatori comincio a preoccuparmi. Predeterminare così non serve, non solo nello sport».
Jordi Bertomeu, a.d. dell’Eurolega, al Corriere ha detto che il basket italiano è immobile.
«La realtà è quella, l’analisi è complessa. Concordo sulla questione palazzi: ci sono strutture bellissime ovunque in Europa tranne che da noi. Ma lo sport è lo specchio del sistema politico. In Italia c’è da tempo un chiaro problema di leadership. E se manca quella…».
Dieci anni all’estero tra Madrid, Mosca, Los Angeles e San Antonio significano…
«Sul piano lavorativo un’esperienza bellissima. Certo, l’Italia un po’ mi manca. Però penso che ormai il nostro sia diventato un meraviglioso paese dove andare solo in vacanza. E mi spiace».
San Antonio, invece, com’è?
«Mi ricorda i tempi di Treviso: molto verde, gente tranquilla, la scuola per mio figlio a 10 minuti. Città ideale».
Lei tornerebbe in Nazionale?
«Per ora c’è un eccellente allenatore e ciò che conta è conquistare l’Olimpiade. Se poi un giorno le cose dovessero cambiare e me lo chiedessero, ne sarei onorato».
Ma sarebbe possibile una gestione part time, metà in America, metà in azzurro?
«Non mi pongo adesso il problema».
Metta World Peace ha detto che la stima molto.
«Ai Los Angeles Lakers fu lui che quando mi vide la prima volta mi chiese chi avevo allenato, per capire chi fossi. Lui è un grande: un buon ragazzo al quale ogni tanto si chiude la vena».
Metta ha anche detto che gli Spurs possono rivincere il titolo.
«In corsa ci siamo di sicuro».
Metta World Peace e l’Italia: strana coppia?
«Ci serve sicuramente. Gli auguro di conservare serenità e entusiasmo fino alla fine della sua avventura».
A proposito: se pure lei dovesse cambiare nome, che cosa sceglierebbe?
«Gregorio Popovich».

Recuperare il ruolo centrale del coach

Trovo stamattina una interessante intervista in cui Valerio Bianchini ripropone il suo mantra sulla necessità che i tecnici riprendano un ruolo centrale all’interno delle società. Il general manager ed il coach devono condurre la squadra agli obiettivi concordati ad inizio anno.

Stagione nera per la Juve, Bianchini sa come risalire: “Competenza societaria e credere nelle proprie scelte”

Il coach ha analizzato la stagione di Caserta ricordando anche simpatici aneddoti degli anni 80

Valerio Bianchini in una sfida del Palamaggiò negli anni 80

E’ stato uno dei più grandi e vincenti allenatori di basket italiani. Primo nella storia della nostra pallacanestro a vincere tre scudetti con tre club diversi. Valerio Bianchini per dodici lunghi anni è stato uno degli avversari storici della Juvecaserta. Alla guida di Roma e Pesaro ha raccolto gioie e dolori contro i bianconeri. Con Caserta ormai retrocessa in Legadue, il ‘vate’ ha accettato di analizzare la stagione poco fortunata dei campani. “Ho visto la Pasta Reggia allenata da Molin – esordisce – poi sono riuscito solo a seguire i risultati. Purtroppo la retrocessione dipende da una serie di motivazioni che vanno ricercate innanzitutto nella società. I nuovi imprenditori che entrano nel basket devono rispettare un principio semplice, quello della competenza. Allenatori e general manager devono essere appoggiati in ogni scelta. Bisogna dare continuità al lavoro iniziato. Hanno cambiato tre tecnici, ma alla fine non sono riusciti a risolvere i problemi”.

Per far capire ulteriormente il concetto svela un retroscena della sua esperienza con il Messaggero Roma: “Fui convocato a Milano nella sede della Montedison per parlare del contratto. C’era il grande Raul Gardini che non usò mezzi termini per farmi capire le sue intenzioni. Io di pallacanestro non capisco molto – mi disse – però con lei farò come faccio con il pilota del mio jet. Lo compro, scelgo dove e quando andare. Quando salgo sull’aereo il padrone diventa il pilota non il proprietario. Un concetto che non fa una grinza. In realtà quando si passa dall’azienda allo sport è una cosa completamente diversa. A differenza delle aziende che fanno i bilanci trimestrali, nello sport si è costretti a farlo ogni domenica e il verdetto del parquet non lascia scampo”.

Il futuro della Juve è più che mai incerto. Ripartire dalla Legadue ma con che obiettivi? Che progetto? “Caserta secondo me ha bisogno di fare chiarezza – prosegue Bianchini – di tener duro anche se le cose vanno male. Cambiare tre allenatori non è servito. Se si fanno certe scelte bisogna continuare con quelle. Occorrerebbe dare fiducia al tecnico e andare avanti con il progetto iniziale. Anche gli allenatori giovani che stanno emergendo non fanno più gavetta. Avrebbero invece bisogno di una guida perché hanno tante energie, ma poca esperienza”.

Bianchini al Palamaggiò quando guidava la nazionale

Tantissime sfide memorabili con Caserta e un’accoglienza particolare. “E’ stato sempre emozionante mettere piede al Palamaggiò: i tifosi sono stati molto corretti nei miei confronti. Era molto suggestivo ascoltare O surdato ‘nnammurato, mi venivano i brividi. Ho anche molti amici con cui mi sento ancora oggi. Inoltre avevo una venerazione per Caserta. Maggiò riuscì a fare qualcosa di straordinario a Pezza delle Noci e grazie a lui la Juve ha scritto pagine stupende del propria storia. Ricordo grandi sfide ai tempi di Tanjevic e Marcelletti. Una però in particolare, il playoff dell’85. Allenavo Pesaro e durante la stagione cambiai i due stranieri Cook e Daye. Si avvicinò un signore e mi disse: Bianchini hai cambiato più neri tu che Moana Pozzi. Alla fine vincemmo e andammo in finale, ma fu un pre gara davvero memorabile”.

Adesso bisognerà capire in che tempi Caserta tornerà in Lega A: “Riprendersi la massima serie non sarà semplicissimo – conclude Bianchini. E’ un momento di grande transizione per il basket italiano. Si va verso l’idea di bloccare promozioni e retrocessioni creando una vera e propria lega professionistica. Intanto devono avere le idee chiare su obiettivi, sugli uomini su cui puntare, il budget da investire. Poi nello sport si vince e si perde, ma non bisogna mai mollare”.

Basket, istruttori, genitori, ragazzi…

Due miei allenatori hanno ritrovato una mia vecchia lezione sempre interessante…! 
 GENITORI, ISTRUTTORI E PSICOLOGIA NELLO SPORT GIOVANILE
 La mia esperienza nasce da giocatore (scarso) con un padre sportivo di alto livello, che però non ha voluto che io praticassi una serie di sport per motivi “sociali”. Ho scelto il basket e ne ho fatto la mia vita. Come giocatore ho giocato pochissimo, allenandomi molto ed ottenendo un posto fisso solo quando sono diventato allenatore, presidente e giocatore della società in cui giocavo… Per giocare ho fatto l’allenatore e… ho smesso di studiare. 
 Varie le mie esperienze ma fondamentale l’indicazione di Sandro Gamba che mi indicò l’importanza della psicologia dello sport. Ho allenato giovani a Napoli, la serie A a Napoli, le nazionali giovanili, la serie A a Fabriano, per poi tornare alle giovanili a Napoli da direttore tecnico e dirigente. 
 Credo che il modello insegnatomi da Tommaso Biccardi aiuti molto a comprendere che in questo momento la capacità di relazionarsi ai ragazzi e quindi alle loro famiglie sia determinante nella riuscita del nostro lavoro.

Lo sport rappresenta una realtà in cui responsabilità individuale, rispetto delle regole si coniuga a divertimento in una situazione di scelta personale del ragazzo (anche se qui ci sarebbe da discutere). 

 Si dice che lo sport sia scuola di vita, per me lo può essere a patto che si metta una grande attenzione nell’insegnarlo e nel praticarlo. 
 Un’altra premessa, molte cose di cui parlerò spesso non si riesce a metterle in opera per una serie di situazioni contingenti, ma credo che la coscienza di ciò che deve essere fatto sia il primo passo per raggiungere un obiettivo.

Come arrivano i ragazzi a fare sport: 

  •  Messaggi pubblicità: dai corn flakes, ai giornali, ai compagni di scuola, alla Tv, ai video giochi dove ci si disegna campione (play station)! 
  •  Spinta del genitore: ex atleta, sue mancate aspirazioni 
  • Compagni di scuola, amici 
 Questi messaggi sono molto spesso improntati alla competitività esasperata, al vincere ed primeggiare tra gli altri come unica strada di fare sport.

Il non riuscire nello sport è un vedersi diminuito come immagine verso gli altri (genitori, compagni) e verso se stessi. E’ meglio andare male a scuola che non riuscire nello sport (secchione!)

Il riuscire all’opposto da spesso una prospettiva sbagliata di se stessi nella vita ed una sensazione di intoccabilità!

Da tutto ciò nasce una situazione di stress che va gestita dagli istruttori e dai genitori attraverso un corretta comunicazione tra: 

 1) Atleti – Istruttori 
  •  E’ la relazione più importante e può essere danneggiata da improprie critiche da parte dei genitori. 

 2) Genitori – Istruttori: quanto il tipo di rapporto influisce in modo diretto sull’atteggiamento e sul comportamento del giovane atleta nei confronti dello sport, non è facile definire ma la sua importanza è a mio parere sostanziale. 

  • Cosa il coach deve comunicare ai genitori:
  1. Filosofia di gioco del coach 
  2. Aspettative sul ragazzo
  3. Organizzazione degli allenamenti 
  • Cosa comunicare all’allenatore 
  1. Avere un primo contatto positivo presentandosi e proponendo una collaborazione 
  2. Preoccupazioni particolari: comunicate direttamente al coach (problemi caratteriali, fisici, etc.). 
  3. Problemi pratici (concomitanze di orari, studio, etc.) 
  4. Specifiche preoccupazioni riguardo alla filosofia ed alle aspettative del coach. 
  • Di cosa discutere con il coach 
  1. Il trattamento riservato al figlio, mentalmente e fisicamente 
  2. Modi per aiutarlo a crescere 
  3. Preoccupazioni per il suo comportamento 
  • Di cosa non parlare con l’allenatore 
  1. Tempo di gioco 
  2. Strategie di gioco 
  3. Schemi chiamati 
  4. Di altri giocatori 
  • Come fare se ci sono cose di cui parlare con l’allenatore 
  1. Fissare un appuntamento lontano dalla partita e dall’allenamento, in una situazione tranquilla e riservata.

 3) Genitori – Atleti 

  • Non cercare di vivere attraverso tuo figlio. 
  • Se credi che l’allenatore non stia svolgendo un buon lavoro, non comunicarlo a tuo figlio. 
  • Non dare suggerimenti tecnici durante la partita.

    d) Non dare un cattivo esempio urlando contro arbitri ed avversari. 

Scegliere lo sport giusto: 

  • Molti esperti sostengono che i ragazzi devono scegliere lo sport, a mio parere è vero solo in parte poiché sono troppi i messaggi che bombardano i ns. giovani e come genitore si dovrebbe riuscire ad aiutarli. 
  • Non vediamo solo gli sport di squadra, esistono altri sport in cui si può partecipare con più facilità non scartiamo a priori l’atletica, la canoa, la vela o altri sport che tra l’altro hanno il vantaggio di poter essere praticati per tutta la vita. 

Fattori nella scelta dello sport: 

  • Il figlio sceglie perché…. Amici, genitori, tv, etc. 

In un secondo momento si rende conto che non riesce, diamogli l’opportunità di cambiare. Cerchiamo di capire perché vuole cambiare: il coach, la competitività, l’inadeguatezza. 

  • Il carattere svolge una funzione molto importante, non insistere con un figlio timido a partecipare ad uno sport di squadra quando per lui la corsa di lunga distanza è una situazione con cui si trova bene. 
  • La domanda centrale è “mio figlio si diverte nel fare sport?” 

La scelta dell’allenatore

Insieme alle abilità tecniche i ragazzi imparano l’importanza di riuscire in un compito, il valore di avere una passione sportiva le ricompense del lavoro di gruppo, la gioia di raggiungere un obiettivo, l’importanza di sforzarsi per eccellenza, l’appoggio di un adulto premuroso ed il gusto dolce di realizzare il successo. 

Il programma va in difficoltà quando l’allenatore stressa eccessivamente il concetto di vittoria mettendo in secondo piano gli altri benefici dello sport. L’allenatore deve 
  • Saper insegnare e non solo avere conoscenze tecniche 
  • Dare entusiasmo, con la voce, con l’esempio sul campo 
  • Saper ascoltare, avere capacità di comunicare: Il rispetto nasce anche dal dimostrare la volontà di ascoltare gli atleti per tirare fuori che cosa hanno dentro e che aiuto richiede. 
  • Comprendere l’importanza dei piccoli problemi, la gelosia tra compagni per esempio. 

Il genitore deve:

  •  Aiutare il figlio a sviluppare una sana aspettativa personale, accettando successi e fallimenti che derivano dal praticare uno sport. Questo è uno dei suoi compiti principali. 
  • Parla con tuo figlio lontano dalla partita o dalla gara. 
  • Cerca di stimolarlo a parlare ad esprimere ciò che sente, ciò che gli piace dell’allenamento, le sue esperienze. Ci vorrà tempo perché inizi a parlare.
  • Cerca di creare l’auto coscienza di ciò che ha fatto di buono, anche se la squadra ha perso. Se ha giocato male cerca di parlare di cosa ha imparato dagli errori fatti e cosa fare per migliorare in vista delle prossime partite. 
  • Comprendere la sensibilità dei ragazzi e quando arriva di cattivo umore condividi i suoi sentimenti, fagli sentire che hai capito. Dagli una prospettiva più ampia della situazione. 

 Cosa fare con un figlio non atleta: ci sono tante altre possibilità di vivere lo sport, allenatore, giornalista, statistiche, arbitro…!

“Primo l’atleta, secondo vincere” ma il vincere ha un suo valore, si deve imparare dalle vittorie come dalle sconfitte ed occorre spiegarlo ai ragazzi che percepiscono la differenza.

Il modo in cui il ragazzo reagisce allo stress dipende dall’allenatore e dai genitori.

In una ricerca di USA TODAY confermata da molti psicologi si sottolinea che una gran parte dei problemi è creata da genitori che hanno imparato ciò che sanno dello sport dal guardare lo sport professionistico in televisione e si aspettano che i loro figli usino le stesse strategie e tecniche usate dai professionisti. Da genitore ed allenatore bisogna ricordare che non ci si può aspettare da un ragazzo di essere un mini professionista, innanzitutto è un bambino e poi un giovane atleta.

Ma quale che sia il programma sportivo di tuo figlio la cosa più importante è di trasmettergli un amore incondizionato. 

 Negli Stati uniti è uscito un libro, che sta avendo un gran successo, che titola: Will You Still Love Me If I Don’t Win? (Mi vorrai bene se non vinco?)

L’importanza del rispetto nel basket

Dal sito  Hoopskills un articolo di Coach Brian Schofield http://www.hoopskills.com/the-importance-of-respect

«Quando ero un ragazzino mio padre mi prese da parte un giorno e mi disse qualcosa che non ho mai dimenticato. Mi disse che era di gran lunga più importante per lui che la gente pensasse a suo figlio come ad un bravo ragazzo rispettoso piuttosto che ad un buon giocatore di basket.

Questo concetto non mi ha mai lasciato. Oggi a volte sembra di vivere in un’epoca completamente diversa. Recentemente ho visto una partita di basket estivo AAU (l’organizzazione americana no profit, Amateur Athletic Union), dove, durante un time out, uno dei giocatori ha iniziato ad urlare all’allenatore “Lasciaci tirare e basta!”.

L’allenatore ha abbassato la testa e non ha fatto nulla, mentre il giocatore è tornato in campo e gli è stato permesso di continuare a giocare. Questo non sarebbe mai accaduto con uno qualsiasi degli allenatori con cui ho giocato, e neanche di certo con mio padre.

Durante una partita di baseball, avevo 10 anni, mi trovavo sul monte di lancio ed ho iniziato a piangere perché non riuscivo a giocare bene. Quando mio padre ha cercato di darmi un consiglio dalla panchina, gli ho urlato qualcosa contro. Con calma mi è venuto incontro in campo e mi ha dato una lezione sul rispetto. Mi spiegò chiaramente che lui era il coach e si stava prendendo le sue responsabilità per aiutarmi nelle scelte.

Ho scelto di mancare di rispetto a lui urlando dal campo e lui sceglieva di portarmi fuori dal gioco perché era ciò che ogni buon allenatore deve fare. Ripensando a quell’evento una cosa che spicca per me è il fatto che mio padre non ha aspettato di arrivare a casa per darmi una lezione. Non ha fatto finta che non fosse accaduto niente, ha agito immediatamente e ne ha fatta una occasione di insegnamento.

Non so se avrebbe avuto un impatto così forte su di me per tutta vita se lui avesse ignorato la situazione durante il gioco per poi punirmi a casa. Penso che gli allenatori debbano prendere a cuore queste cose. Si deve approfittare dei momenti di insegnamento e ottenerne il massimo. Non scegliere la via più facile.

Dato che i nostri lettori sono composti sia da giocatori sia da allenatori voglio rivolgermi ad entrambe le categorie per puntualizzare questo aspetto.

Gli allenatori non dovrebbero mai permettere che i giocatori possano ottenere il meglio di loro mancandogli di rispetto. Ciò significa che quando si sta cercando di ottenere grandi risultati  non si devono consentire alcune cose:

1. Non permettere mai di interrompere e parlare mentre il coach sta parlando. Questo è un segno palese di mancanza di rispetto. Se insegni o alleni la spiegazione è per tutti, quindi tutti hanno bisogno di ascoltare. Qualsiasi giocatore che sta parlando, mentre tu stai parlando deve essere richiamato apertamente e immediatamente per correggere il comportamento e per spiegare come ci si deve comportare

2. Non permettere ad un giocatore di rispondere al coach. Nessun giocatore è sopra di voi o la squadra. Quando ero al liceo ho giocato con un ragazzo che è diventato una stella al college ed ha giocato per diversi anni in Eurolega. Questo giocatore era più bravo di tutti noi, e lo sapeva, ma il nostro allenatore non gli concesse mai alibi,  non sorvolò mai su nulla. Diversi allenamenti sono terminati con questo ragazzo nello spogliatoio per la sua mancanza di rispetto verso gli allenatori. Credo che tutto ciò sia stato positivo per lui visto i successi che ha avuto nella sua carriera. Forse dipende dal fatto che i coach non gli hanno mai permesso di essere irrispettoso. Se gli avessero permesso di fare ciò che voleva mi chiedo se avrebbe avuto lo stesso successo. Ne dubito.

3. Non permettere a nessun giocatore di mancare di rispetto ad un  compagno di squadra. Ciò significa che non si consente di sminuire o ridicolizzare alcun compagno per qualsiasi motivo. Gli allenatori devono avere il controllo e quando un altro giocatore sminuisce un compagno ciò danneggia realmente la squadra e da l’idea alla squadra che il coach supporti questo tipo di comportamento.

Un giocatore dovrebbe tenere a mente queste cose. Se si hanno problemi li si devono affrontare e risolvere fuori dal campo. Nessun allenatore vuole essere messo in imbarazzo e la maggior parte non lo tollera affatto. Ho visto molti allenamenti di  Coach Rick Majerus a Utah University: non appena un giocatore apriva la bocca durante l’allenamento veniva messo a tacere e gli faceva un gran culo.

I giocatori devono conoscere il proprio ruolo e capire che nessun individuo è sopra la squadra e l’allenatore ha la responsabilità di proteggere tutto ciò. Siate rispettosi e ascoltate. Se non siete d’accordo, parlate con l’allenatore più tardi e in privato. Affrontare queste situazioni nel modo corretto permette di maturare al punto di sviluppare abilità che vi aiuteranno ad avere successo in ogni situazione della vostra vita.»

Brian Schofield

Posted by  on January 13, 2014

Digressione

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Un movimento reso famoso da Manu Ginobili, ma che i vecchi giocatori ricordano insegnato dai grandi coach del passato…

Cinque motivi per cui i giocatori non raggiungono i loro sogni…

Dal nostro sito vivibasket.it, una interessante riflessione 

 
5. Danno ascolto a coloro i quali riempiono il loro ego invece che a quelli che dicono loro la verità.

4.Si aspettano che sia tutto facile e alla loro portata e non sono disposti al sacrificio per imparare. Le persone svogliate falliscono.

3.Sono così distratti da non concentrarsi su quello che è necessario per avere successo.

2.Non credono sufficientemente in se stessi. Sono insicuri, stressati, spaventati, dubbiosi, e non ci credono mai fino in fondo.

1.Semplicemente non ci arrivano! Non comprendono quanto deciso impegno e persistenza siano necessari per farcela.

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Indimenticabile, Cesare Rubini, un guerriero dello sport

Ricordare Cesare Rubini è per me ripercorrere i momenti più belli della mia carriera come allenatore.
imageRubini era un mio mito fin da piccolo quando iniziai a giocare a basket, mi allenavo da solo in giardino giocando con un canestro ed impersonando i giocatori delle due squadre. Il Simmenthal era la mia squadra preferita, giocavano tutti i grandi, da Riminucci e Pieri a Masini, Vittori, ma anche Papetti e Gaggiotti, gli ultimi della panchina.
Ricordo le prime partite in tv con la voce di Aldo Giordani, la finale di Coppa Campioni con il mitico Bill Bradley.
Lo conobbi tanti anni dopo, ero un giovane allenatore di 26 anni, ci convocò a Rieti: ero con Gianni Piccin, in una stanza scura di un albergo, ci comunicò che avremmo fatto da assistenti ai Centri di Addestramento Sud, a Montecatini, e Nord a Gorizia, poche parole, con il suo vocione, la gioia che sprizzava da tutte le parti.
Lo incrociavo nelle varie occasioni in cui collaboravo con il Comitato Allenatori nei clinic ma poche parole, avevo un grande rispetto ed ero un po’ intimorito da lui.
Nel 1985 il secondo incontro a Firenze, era arrabbiato perché durante un suo intervento al clinic qualcuno aveva osato fischiare, chi c’era ben ricorda come fulminò tutti con una sonora imprecazione che zittì la platea di oltre 800 allenatori che restarono in silenzio a seguire fino in fondo la sua relazione. Si rivolse a me nell’atrio del palazzo in modo secco: «di Lorenzo, Bianchini ha detto che ti vuole come assistente per il viaggio in Cina, ringrazia Puglisi! Io non ti conosco, vedremo…! Ma ricordati che in nazionale non si parla, nessuno deve sapere cosa noi diciamo!». Io non credevo alle mie orecchie. Un ricordo dolcissimo per me: fu la prima volta che mio padre, dopo 19 anni di basket, mi abbracciò e mi fece i complimenti!
Rubini in CinaFu un’esperienza stupenda da Hong Kong a Pechino, a Shangai, a Nanchino per poi tornare a Pechino, mille ricordi, me ne tornano in mente due in particolare. Il primo a Shangai in cui evitai a Luisella, sua moglie, di essere travolta da una bicicletta e lei mi elesse suo salvatore! Lo chiamava “dromi” per la sua andatura che, diceva, gli ricordava un dromedario.
Il secondo fu alla fine dell’ultima partita vinta con la Cina in un palazzetto da 20mila persone stracolmo. Preparammo la partita con una zona adattata che Valerio Bianchini fece spiegare a me negli spogliatoi. Quando tornammo felici per la vittoria, Rubini mi chiamò e mi disse: «di Lorenzo non pensavo fossi così bravo, complimenti!». Mi squagliai!
Quell’inverno dopo poche partite mi affidarono la squadra dopo l’esonero di Pentassuglia, e incontrai Rubini in aeroporto, a Fiumicino, lui arrivava con un aereo e io partivo, lasciò il suo gruppo attraversò la pista e mi venne a dare l’in bocca al lupo, con gli addetti alla pista che lo rincorrevano.
Lo ricordo al nostro primo incontro a Zagabria, nel 1989, quando fui assunto al Settore Squadre Nazionali, ormai con me era quasi affettuoso, in un modo molto simile a quello di mio padre: burbero, ma sempre pronto a dire la parola giusta.
Iniziai ad allenare insieme a Mario Blasone, una scuola dura ma formidabile e ad ogni occasione Rubini non perdeva occasione per ripeterci che a lui non interessava vincere, ma voleva che creassimo giocatori per la nazionale A.
Passammo molti giorni a Fontane Bianche, vicino a Siracusa, per la preparazione al primo Mundialito Under 20. L’albergo era sulla spiaggia, lontano da qualunque centro abitato, per cui si decise di prendere un’auto a noleggio. Fummo inviati a ritirarla, ma con gran sorpresa non risultava niente, Rubini cominciò ad arrabbiarsi e poi alla fine scoprimmo che la macchina era stata prenotata sì, ma a… Syracuse, nello stato di New York, e tutto finì in una grande risata. Un altro episodio divertente (ma mica tanto) fu quando osai passargli il sale! «Ma che napoletano sei, – disse – non si fa mai così, mettilo sul tavolo!», e io che volevo scomparire.
Quell’estate, il giorno del mio esordio da capo allenatore a Bormio, dovetti lasciare la squadra, perché morì mia mamma e lui come sempre mi chiamò con grande affetto.
Ero l’assistente della nazionale Cadetti, ma lui volle che preparassi una relazione su tutti i giocatori segnalando quelli che, a mio parere, erano da nazionale A. Ricordo che segnalai Ale Frosini, che Mario Blasone aveva scovato a Castelnuovo Berardenga, negli anni lui ricordò questa cosa.
imageIniziammo le frequentazioni nei raduni della nazionale e nelle riunioni, sempre contenute ma poche parole bastavano. L’estate del 1990 fu quella del titolo Juniores come assistente di Blasone: fu una grande esperienza per me, molto pesante perché Mario era molto esigente, al ritorno mi invitò a Positano, al Villa Murat, dove lui era solito passare una settimana di riposo settembrino, fu una esperienza bellissima, veramente un padre, mi ascoltò, commentò poco, ma cambiarono molte cose tra di noi.
L’anno successivo fui scelto come assistente di Sandro Gamba per gli Europei di Roma, una manifestazione straordinaria. Arrivammo in finale perdendo contro l’ultima nazionale della Jugoslavia unita, davanti a 15mila spettatori. Eravamo in un bellissimo hotel alle spalle del Pantheon con una macchina solo per noi con cui andavamo ad allenarci al Palaeur. Sandro e Tonino Zorzi mi chiamavano sempre “Pulicano”, ed un giorno l’autista che ci accompagnava non vedendomi chiese a Rubini: «Ma oggi il signor Pulicano non viene con noi?», seguirono una grandissima risata e sfottò per vari giorni.
Alla fine fu un trionfo e fu lui che si adoperò per trovare la medaglia per me ed un altro paio di persone che non l’avevano ricevuta.
Fu il primo a cui io telefonai quell’estate dopo la grande vittoria dei ragazzi del 1974 ai Campionati Europei Cadetti, ma come sempre lui mi riportò con i piedi a terra: alla riunione post estate mi richiamò con forza perché non avevo messo davanti a tutti la Federazione ed i suoi componenti che avevano permesso con il loro lavoro di arrivare a quel successo.
In quella riunione si discusse se far continuare il programma con i ragazzi del 1975, che per una scelta della FIBA, erano stati esclusi dagli Europei. Qualcuno suggerìdi risparmiare, ma Rubini mi chiese con il suo vocione: «di Lorenzo ma questi giocatori possono diventare buoni per la nazionale?». Alla mia risposta affermativa confermò il programma. Da quel gruppo sono arrivati, tra gli altri, Galanda, Marconato, Scarone, Damiao e altri. Nel 1993 mi chiamarono con la nazionale Militare che veniva da due anni di mancati successi, c’era il problema Moretti, che avrebbe dovuto allenarsi e giocare con la Nazionale A, io avrei dovuto vincere ma tenere fuori Paolo. Era facile perché la squadra era comunque fortissima, l’unico problema era il Colonnello Magrini che ad ogni costo avrebbe voluto Moretti. Alla fine ci riuscimmo e come sempre lui fu tra i primi a complimentarsi.
Mi piaceva sempre fargli gli auguri per il suo compleanno, anche se lui non gradiva, perché tra l’altro coincideva con il giorno dei morti, ma alla fine sapevo che era contento.
Uno degli ultimi ricordi che ho di lui è legato ad una riunione del CNA a Bologna dove venne in quanto Presidente Onorario. Volle che mi sedessi vicino a lui, era amareggiato per l’incredibile ostracismo che veniva fatto ad Ettore e per la mediocrità delle questioni proposte. Anche quella volta da lui poche parole secche che arrivarono al centro della questione, ma purtroppo alcuni dei presenti erano fatti d’acqua e fecero finta di niente.
Fu l’ultima volta che lo vidi, ci parlai a telefono alcune volte, gli ultimi anni parlavo solo con Luisella, l’adorata moglie, con cui avevo un rapporto speciale dopo il viaggio in Cina, e lei mi raccontava, accoratamente, di lui, era uno strazio per me, che con il passare degli anni sono un po’ diventato come lui, commuovendomi alle lacrime quando sento una emozione forte.
L’ultimo saluto fu, al suo funerale, non potevo mancare, arrivammo io e Dante De Benedetti, in quella enorme chiesa piena di quelli che lo avevano amato e rispettato. Fu un giorno difficile, ma uno come Rubini resta dentro.
Con il suo libro rivivo la sua storia e vorrei far conoscere ai ragazzi d’oggi quest’uomo straordinario nella sua grandezza, ma soprattutto nella concretezza di tutto ciò che ha fatto, certo che lui mi guardi da lassù.

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