Il 25 gennaio 1987 Giosuè, uno dei tre angeli che lo avevano assistito in quei quattro mesi, mi aveva chiamato alle sei e mezzo, proprio alla stessa ora in cui mi sono svegliato questa mattina. Papà se ne era andato dopo quattro mesi di silenziosa sofferenza.
Me ne andai in giardino, era una mattina come questa, fredda con il cielo terso, il Suo albero di limi era pieno di frutti. Non era mai accaduto, ma lui non avrebbe più potuto mangiare quel frutto aspro e profumato che tanto amava, o’ limmo.
Il giardino era insolitamente fiorito, le camelie, il dracunculus, erano lì a salutarlo. L’ultima volta che mi aveva riconosciuto era stato il 12 di dicembre, mi aveva stretto la mano, tirato a se e fatto la crocetta, sarebbe stata l’ultima.
Camminavo per il Suo giardino, tra fiori, piante ed animali, sentivo la sua presenza ed avvertivo già la Sua assenza. Mi aveva cresciuto con affetto ma con tante rigide regole, nulla era irraggiungibile se avessi dato il massimo… Una onnipotenza con cui spesso mi sono scontrato, che mi ha portato ad affrontare e a dover poi accettare i miei limiti.
Se il basket è diventato la mia vita, lo devo a lui, sportivo vero, campione, un po’ dissennato, di sciabola degli anni trenta, che volle che conoscessi lo sport di squadra, per vivere e conoscere altri mondi, altre persone, diverse dal mondo dorato in cui ero nato.
Ma fu proprio il basket a dargli il dispiacere del mio abbandono dell’università, che non ebbi mai il coraggio di confessare, rimase un argomento muto tra di noi.
Non dimenticherò mai la nostra chiesetta in giardino, piena all’inverosimile di fiori, portati da Filippo, il Suo fioraio, che piangeva con noi, non avremmo mai saputo cosa lo legava a papà, che ancora oggi gli fa inumidire gli occhi se ne parla. Ma questo era mio padre,
Quell’uomo aristocratico, burbero era amatissimo da tutti, i suoi operai, i suoi collaboratori, i suoi amici. Si, quel gruppo di amici che erano più che fratelli per lui, zio Piero e zia Giuliana, zio Romualdo, zio Ermelino e zia Livia, zio Ninì e zia Luisa, zio Pasqualino e zia Paola, Robertino, Carletto. C’erano tutti, e mille altri, nella chiesa di San Ferdinando quell’ultima mattina, una dimostrazione di affetto unica. Al mio fianco, le persone che mi volevano bene, mi accompagnarono, mentre finalmente piangevo, quelle lacrime che lui mi rimproverava, dovevo essere forte, non piangere!
Mi lasciava un esempio straordinario, tante storie della sua vita, l’onere e l’orgoglio di essere un di Lorenzo, che lui aveva riportato nella sua vita esemplare di lavoro. La nobiltà della nostra famiglia, non doveva essere di maniera, ma un modo di essere, di vivere, in cui testimoniavamo chi ci aveva preceduto.
Nella vita si testimonia il proprio passato nel presente, giorno dopo giorno, trasmettendo ai giovani con l’esempio, le proprie esperienze!