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Ciao Tau

Che dire? Per me è stato un secondo padre, con il prof. Salerno mi ha accompagnato nel basket e nella vita.

Dal primo incontro all’esame del corso allenatore nazionale nel 1979 al suo arrivo a Napoli. Mi volle fortemente come assistente, contro il parere di Nico Messina, che non aveva gradito il mio rifiuto ad andare in panchina radiocomandato.

Eravamo a Chianciano Terme e da lì cominciò la mia educazione sportiva ed umana con il Tau.

Pochi mesi fa, in occasione del suo compleanno (è stata anche l’ultima volta che ci ho parlato), ho raccontato qualche episodio della nostra vita insieme, ma oggi faccio fatica, Dopo la fine dei miei genitori questa è la perdita più grande della mia vita, mi è stato vicino sempre, con una parola, un consiglio.

Per quanto amasse parlare per descrivere minuziosamente ogni cosa che facesse, dal basket, alla cucina o a qualunque argomento che avesse approfondito, per tanto era diretto e di poche parole quando doveva darmi un consiglio. Con la sua burbera ma affettuosa schiettezza, in tante occasioni mi ha aperto gli occhi su mie situazioni personali e di lavoro.

Oggi lascia la sua compagna di sempre, Germana, Mamma Tau, come io la chiamo, Claudia ed Elena, le due figlie, ed i nipoti. Io ho avuto la fortuna di essere vicino a Claudia ed alla sua famiglia che sono certo porteranno alto il nome di Tau.

Buon viaggio papà Tau, spero di essere degno di onorarti ogni giorno, ma ci mancherai tanto.

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Taurisano, la storia va insegnata

Era il maggio 1979 quando mi trovai di fronte a lui a sostenere l’esame del corso allenatore nazionale a Rimini. Fu il mio primo contatto diretto ma i suoi insegnamenti avevano già tracciato il solco su cui si muoveva la mia carriera di allenatore.

Basket Boom Story fu il primo libro di basket significativo che ho letto.

Ma la sua proverbiale organizzazione e capacità di strutturare gli allenamenti e una stagione mi era stata passata da Ugo Schaeper che lo aveva seguito nei suoi Camp estivi.

Tau era formidabile nell’organizzare tutto. Ricordo ancora la sua lezione nel luglio 1978 alla palestra della Basilica di San Paolo, sul contropiede. Ogni giocatore aveva un numero ed un compito ben definito, nelle dimostrazioni c’era qualcuno che rischiò di restare sul campo a furia di correre.

Solo dopo scoprii quel monumento dell’insegnamento che è “La pallacanestro ” con una descrizione perfetta di ogni fondamentale.

Da lontano intimoriva ma quando dopo qualche anno mi ritrovai al suo fianco a Chianciano scelto come assistente, grazie a Santi Puglisi, scoprii un uomo straordinario.

Come tutti i grandissimi, semplice, leale, diretto, disponibile, da allora è diventato un mio riferimento nella vita sportiva e personale.

A Cantù era diventato famoso per aver costruito una squadra con tanti ragazzi del vivaio ed aver dato uno stile di gioco che è rimasto tale per decenni: il contropiede di Cantù con Marzorati e Recalcati è indimenticabile, come la mitica foto del muro di Cantù, emblema della sua capacità di giocare con i centri.

La sua difesa era preparata in ogni singolo aspetto, individuale e zona. Ricordo che proprio a Chianciano mi spiegò le due difese che tanto ci aiutarono quell’anno: la 21 e la 12. Erano semplici si mostrava una 2-3 per poi passare ad una 1-3-1 per adattarsi allo schieramento avversario, e viceversa dalla 1-3-1 si passava a 2-3.

Si fece stampare dei quadernoni in cui era possibile riportare ogni allenamento con esercizi e annotazioni pre e post prestazione.

Tutto era preparato all’inizio della stagione ma era uno schema su cui lui sapeva adattarsi con grande duttilità.

Grande inventore di esercizi funzionali al nostro gioco, ne ricordo uno per tutti “Invertire ” il classico esercizio di 2c2, 3c3 e 4c4 per lavorare sul contropiede.

A Napoli si ambientò subito, forse per i suoi antenati napoletani, divenne più scugnizzo di tutti. Andare in macchina con lui era una esperienza da terrore, si infilava ovunque pronto a rispondere in dialetto a qualunque protesta di noi malcapitati napoletani.

Tra le tante sue conoscenze due erano proverbiali: i funghi e la cucina unita alla conoscenza dei vini. Con lui mi sono appassionato a vino e cucina.

Trovava funghi ovunque, riconoscendo ogni specie, proverbiali i porcini e gli ovoli trovati a Cuma sotto l’Acropoli, o i 5 kg di porcini e coprinus comatus trovati nel villaggio turistico di Taranto dove giocammo un torneo, Marco Bonamico lo prese in giro per mesi per la loro descrizione e forma.

Perché una delle caratteristiche di Tau era proprio questa: aveva il massimo rispetto da tutti, ma era capace di scherzare con tutti.

Fu il primo a portare le squadre a Bormio, al Rezia da Maurizio Gandolfi, eravamo trattati come re, ci si allenava duramente senza sentirlo. Sempre variazioni per la preparazione fisica, imposta anche allo staff, ci arrampicavamo ovunque con i pulmini del Rezia, Val dei Vitelli, Oga, laghi del Cancano… Ma c’era spazio per il relax, a tavola si mangiava di tutto, immancabili i suoi funghi, i giocatori si divertivano fuori del campo e noi giocavamo interminabili partite di carte. Si inventò anche un gioco di carte le cui regole furono scritte su di un tovagliolo, lo “Sfaccimmo”. Una sorta di bridge semplificato. Con il grande Gigi Tufano, Renato Volpicelli giocavamo le ore.

Portò NAPOLI in A1 con una capacità straordinaria di costruire la squadra negli anni, di scegliere americani funzionali al nostro gioco, scoperti con la sua rete di amicizie negli USA. Ricostruì il Muro con Toni Fuss, Lee Johnson e Rudy Woods, che una sera ritrovammo infilati in una 126 con Max Antonelli ed una ragazza, malcapitata proprietaria dell’auto, in giro per Bormio!!

Memorabili i suoi duetti con Nicola De Piano, che riuscì a condurre con grande maestria nel mondo del basket. Ricordo sempre che mai un giocatore fu preso senza il suo consenso. Il Tau organizzava il roster in modo di avere sempre due giocatori, un anno servivano un 4 ed un 5. Il Tau stilò la sua lista con in cima Meneghin poi Polesello ed infine Fuss e Righi. Arrivarono gli ultimi due ma li aveva scelti lui.

Il mio cruccio era l’impossibilità di avere giovani napoletani in squadra, se si esclude Massimo Sbaragli, ma il Tau mi diceva, “Roberto al presidente non interessa, per cui è inutile andare contro le sue direttive generali preferisce giocatori di fuori Napoli “. Molti si sono allenati solo Massimo ha giocato. Era bravo a trovare giocatori giovani da lontano, assecondando la volontà di Depi, sua la scoperta di Riccio Ragazzi, Clivio Righi, Simone Lottici, e tanti USA giovanissimi.

Altra maestria era la capacità di gestire quelli che lui definiva “lazzaroni”. Bastone e carota e rendevano a mille, italiani e stranieri.

Come dimenticare le settimane dei playoff per salire in A1 in cui Rudy Woods era introvabile…

Nella sua organizzazione era geniale, univa attacchi tradizionali a giochi innovativi, ricordo il gioco con il blocco cieco in allontanamento dopo un passaggio consegnato, disegnato per Lee Johnson, che portava straordinari risultati.

Passò due volte per Napoli, la seconda volta lo convincemmo Enzo Caserta ed io, per evitare un arrivo poco gradito per le modalità con cui si propose un altro coach, in apparenza amico, in realtà sibillino. Ma fu un successo!

Scrivendo mi vengono in mente mille episodi, ma mi piace arrivare al suo addio al basket, deciso in autonomia, quando avrebbe potuto dare ancora molto, ma quel mondo non gli piaceva più!

Si lanciò in un’attività imprenditoriale, Il Podologo , un’azienda che fu tra le primissime a produrre plantari studiati con una pedana ad hoc per ciascuno. Ed anche li fu un grande successo!

Si trasferì nella casa che si fece costruire a Polpenazze del Garda ( per prenderlo in giro io dicevo che si era trasferito a polpettone sul Garda), e, dopo qualche collaborazione con il CNA, restò spettatore di un mondo che aveva contribuito a rendere grande.

Da allora i miei rapporti sono rimasti intensi, quando ho avuto momenti difficili o felici li ho sempre voluti condividere con lui, ricevendo consigli saggi.

Ho collaborato con il Tau nella stesura dell’Albero del Basket, una monumentale pubblicazione sui fondamentali, in cui i miei ragazzi napoletani hanno fatto da modelli fotografici.

Il Tau ha continuato con le passioni della sua vita, le piante, i funghi, avendo al suo fianco la straordinaria Germana, compagna di sempre, le figlie ed i nipoti, alcuni dei quali sono un legame forte tra me e lui. Hanno preso la sua rigorosità, la sua testardaggine nel raggiungere gli obiettivi, il cuore immenso, la capacità di andare oltre ogni vicissitudine.

Il Tau è ancora un guerriero nel suo maniero circondato dall’affetto e dal rispetto di tutti. Meriterebbe che tutti conoscessero la sua storia, senza di lui il basket moderno sarebbe diverso. E chiudo con uno dei complimenti più belli che uno dei suoi più grandi allievi, e mio maestro, Valerio Bianchini mi fece, presentandomi come assistente della nazionale sperimentale che nel 1985 andò in Cina: “Roberto è un predestinato è nato nel 1953, perché dico questo? Nel 1923 è nato Cesare Rubini, nel 1933 Arnaldo Taurisano, nel 1943 sono nato io, che il 1953 gli sia di buon auspicio!” Io ho solo avuto l’onore di lavorare ed essere voluto bene da tutti questi grandi, neanche lontanamente mi posso paragonare a loro, ma senza queste persone io non sarei Roberto di Lorenzo.

“Allenare”, la mia lezione al Corso Allenatore Nazionale di Bormio 2015

Quest’anno al Corso Allenatore Nazionale di Bormio,  ho svolto un intervento in cui ho portato agli allenatori le testimonianze dei grandi Maestri che mi hanno accompagnato ed il mio modo di intendere il più bel lavoro del mondo: Allenare!

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Il video completo della lezione

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Le slide della lezione

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La visione di Bianchini e Tavcar

La prima volta di Ettore

Un canestro in più o in meno

Campioni d’Europa

Quando la volpe non arriva all’uva: il coraggio di dire “non riesco”!

Ho chiesto alla nostra Tonia Bonacci, di scrivere un articolo su uno dei maggiori problemi che si incontra allenando i giovani, “i limiti“.

Tonia, psicologa, psicoterapeuta SIPI, esperta in psicologia dello sport, ha collaborato con il Progetto Vivi Basket dal 2005, proseguendo con me il lavoro iniziato con la Polisportiva Partenope nel 1998, creandosi un bagaglio eccezionale di esperienze sul campo.

Io credo che si possa allargare questo discorso sui limiti a tanti contesti della società attuale. E come sempre Tonia  in questo suo intervento ci regala interessanti spunti di riflessione.

Credo fermamente nell’idea che lo sport formi e aiuti a crescere come persona, fin dalle primissime fasce di età.

Ciò che accomuna chi fa sport è il trovarsi di fronte ad una difficoltà. Per quanto ci si diverta, si stia insieme, si condividano obiettivi, per quanto si possa usare il contesto sportivo per fare nuove amicizie, chi fa sport prima o poi, che lo si voglia o meno, proverà l’esperienza di essere posto di fronte ad una difficoltà, ad un ostacolo che non si sa affrontare, almeno non all’inizio, e che si vuole e che si cerca di superare per imparare, per diventare più abili.

Quell’ostacolo si chiama limite.

Può essere rappresentato da un attrezzo da maneggiare in un certo modo, un gesto tecnico, una lettura tattica, un avversario, sé stessi o il proprio vissuto. 

La spinta a tentare di trascendere il limite si chiama agonismo. Oggi si fa una gran confusione, soprattutto nello sport giovanile, tra agonismo e la richiesta-pretesa di vincere a tutti i costi.

Agonismo significa: tendenza a superare un limite.

Vincere a tutti i costi significa: negare che ci siano limiti e immaginare di essere onnipotenti, cioè io vinco sempre contro tutto e tutti.

Lo sport sano, l’agonismo sano, insegna

  • gestire sé stessi dinanzi al limite;
  • a tentare di trascenderlo da soli e in collaborazione con altri.

Ma è un’esperienza complessa, perché necessita del coraggio di dire a sé stessi: non riesco, ma voglio provare ancora e ancora, fino a poterci riuscire. 

Cosa serve per riuscirci? 

  • che ci sia un adulto (ovvero non solo una persona più grande di me) che sia capace di riconoscere con me il fatto che io “non riesca”
  • che questa persona sappia insegnarmi, sostenermi
  • che sappia anche accettare che posso non riuscire a superare quel gradino
  • che sappia starmi accanto per trovare nuove strade

Ma di questi adulti ce ne sono pochi, soprattutto sui campi dove fanno sport i bambini e i ragazzi. In questi spazi ci sono spesso genitori e allenatori che davanti alla difficoltà del proprio piccolo atleta tendono a deresponsabilizzarlo e a deresponsabilizzare loro stessi. È colpa dell’arbitro, del genitore che non lo educa, dell’allenatore che non capisce niente, del dirigente che ha preferenze e non dà a tutti le stesse opportunità, del campo, del clima (?!?). Oppure inizia l’ipercritica: si fa un’analisi di tutti gli errori commessi, spesso fatta con rabbia e delusione.

Quali sono le possibili conseguenze di questi comportamenti? 

Il rischio è di vedere ragazzini

  • che credono di essere campioni già pronti per le squadre nazionali
  • che al primo ostacolo si arrabbiano, spesso in modo plateale
  • che assumono atteggiamenti snob (del tipo “non mi meritano in questa palestra!”)
  • che si disperano
  • che svalutano sé stessi oltre il senso di realtà
  • che abbandonano l’attività sportiva.

Invece, raramente ho sentito dire:

  • É vero, hai giocato male, secondo te come mai?
  • Cosa puoi fare per migliorare?
  • Come posso aiutarti?

Credo fortemente che:

  • lo sport insegni a vivere e che l’agonismo sia un valore che aiuti i bambini a diventare adulti, capaci di confrontarsi con le difficoltà e con i successi. Che insegni e a comprendere che la fatica e l’impegno portano a diventare sempre più bravi, ma non necessariamente ad essere un campione.
  • sia illusorio e pericoloso insegnare ad un bambino che “può” tutto; è altrettanto illusorio e pericoloso insegnare ad un ragazzo che non è necessario faticare per ottenere risultati, dato che lui “ha talento”.
  • il compito di un buon genitore e di un buon allenatore sia di permettere ai giovani atleti di non brancolare nel buio nei momenti difficili, ma di essere sostenuti nel raggiungere obiettivi adeguati alla propria crescita.
  • che per fare ciò occorra avere i piedi a terra: si deve avere il senso di realtà, che ci fa confrontare con le risorse che abbiamo e con le difficoltà che ne ostacolano l’espressione, ma si deve anche insegnare a mantenerlo questo senso di realtà.

Come si sviluppa il senso di realtà? Attraverso l’allenamento al confronto.

  • con me stesso
  • con i compagni e avversari
  • con un adulto

Confronto con me stesso: devo considerare i miei progressi, analizzando cioè da dove sono partito a dove sono arrivato (a livello fisico, tecnico e mentale), in un anno, poi in un semestre, quindi in un mese, e in una seduta di allenamento. 

Confronto con i compagni e con gli avversari: perché  sono loro che ci fanno “da specchio”. 

Confronto con un adulto di cui ci si fida: 

  • perché mi dice la verità e lo fa per aiutarmi
  • perché è competente e si prende la responsabilità di insegnarmi cose che sono adeguate al mio fisico e alla mia capacità del momento
  • perché so che tutto ciò che fa lo fa per il mio bene e non mi mette in condizioni di pericolo
  • perché non mi denigra né mi allontana se sbaglio, ma pretende impegno
  • perché sa fermarsi e fermarmi quando esagero e sa sostenermi se mi svaluto per paura
  • perché non mi usa per realizzare i suoi sogni infranti

L’allenamento Integrato

Credo fermamente nell’utilità degli allenamenti integratidove il livello tecnico-tattico si integra a quello fisico, ed entrambi i livelli si integrano a quello relazionale.

È l’unico modo per mettere al centro la persona (atleta) e la sua relazione con i suoi pari (avversari e compagni) e con gli adulti di riferimento (genitori e allenatori in primis), per capire come allenare quel bambino o ragazzo, come migliorare la performance senza mai perdere di vista il suo bene, e ciò che lo aiuta a diventare una persona migliore ed un bravo atleta.

Ma penso che un allenamento integrato non sia per tutti gli allenatori:

– non si può improvvisare: occorre che gli allenatori studino, si formino, si aggiornino con esperti

– non esclude la sofferenza: è solo attraverso la rabbia, la paura e il dispiacere di non riuscire  che si può arrivare alla gioia di vedersi migliorato

– non si accetta per inerzia, è uno stile di vita in cui il rispetto per se stesso e per l’altro sono sullo steso piano e non si può rinunciare all’uno o all’altro

– non lavora per ottenere tutto e subito ma garantisce a tutti il tempo adatto per sviluppare competenze e dare opportunità

– non crea false illusioni ma aiuta a sviluppare una consapevolezza di sé, delle proprie modalità relazionali e del proprio modo di fare performance in campo e nella vita

– non dà per scontato nulla ma pone, ogni volta, davanti lo specchio e chiede di mettersi in discussione con intelligenza, per pensare, pensare insieme e risolvere problemi in campo e fuori

Per questo fare sport è un gioco serio!

Buon divertimento, buon allenamento, e buona vita!

L’importanza del rispetto nel basket

Dal sito  Hoopskills un articolo di Coach Brian Schofield http://www.hoopskills.com/the-importance-of-respect

«Quando ero un ragazzino mio padre mi prese da parte un giorno e mi disse qualcosa che non ho mai dimenticato. Mi disse che era di gran lunga più importante per lui che la gente pensasse a suo figlio come ad un bravo ragazzo rispettoso piuttosto che ad un buon giocatore di basket.

Questo concetto non mi ha mai lasciato. Oggi a volte sembra di vivere in un’epoca completamente diversa. Recentemente ho visto una partita di basket estivo AAU (l’organizzazione americana no profit, Amateur Athletic Union), dove, durante un time out, uno dei giocatori ha iniziato ad urlare all’allenatore “Lasciaci tirare e basta!”.

L’allenatore ha abbassato la testa e non ha fatto nulla, mentre il giocatore è tornato in campo e gli è stato permesso di continuare a giocare. Questo non sarebbe mai accaduto con uno qualsiasi degli allenatori con cui ho giocato, e neanche di certo con mio padre.

Durante una partita di baseball, avevo 10 anni, mi trovavo sul monte di lancio ed ho iniziato a piangere perché non riuscivo a giocare bene. Quando mio padre ha cercato di darmi un consiglio dalla panchina, gli ho urlato qualcosa contro. Con calma mi è venuto incontro in campo e mi ha dato una lezione sul rispetto. Mi spiegò chiaramente che lui era il coach e si stava prendendo le sue responsabilità per aiutarmi nelle scelte.

Ho scelto di mancare di rispetto a lui urlando dal campo e lui sceglieva di portarmi fuori dal gioco perché era ciò che ogni buon allenatore deve fare. Ripensando a quell’evento una cosa che spicca per me è il fatto che mio padre non ha aspettato di arrivare a casa per darmi una lezione. Non ha fatto finta che non fosse accaduto niente, ha agito immediatamente e ne ha fatta una occasione di insegnamento.

Non so se avrebbe avuto un impatto così forte su di me per tutta vita se lui avesse ignorato la situazione durante il gioco per poi punirmi a casa. Penso che gli allenatori debbano prendere a cuore queste cose. Si deve approfittare dei momenti di insegnamento e ottenerne il massimo. Non scegliere la via più facile.

Dato che i nostri lettori sono composti sia da giocatori sia da allenatori voglio rivolgermi ad entrambe le categorie per puntualizzare questo aspetto.

Gli allenatori non dovrebbero mai permettere che i giocatori possano ottenere il meglio di loro mancandogli di rispetto. Ciò significa che quando si sta cercando di ottenere grandi risultati  non si devono consentire alcune cose:

1. Non permettere mai di interrompere e parlare mentre il coach sta parlando. Questo è un segno palese di mancanza di rispetto. Se insegni o alleni la spiegazione è per tutti, quindi tutti hanno bisogno di ascoltare. Qualsiasi giocatore che sta parlando, mentre tu stai parlando deve essere richiamato apertamente e immediatamente per correggere il comportamento e per spiegare come ci si deve comportare

2. Non permettere ad un giocatore di rispondere al coach. Nessun giocatore è sopra di voi o la squadra. Quando ero al liceo ho giocato con un ragazzo che è diventato una stella al college ed ha giocato per diversi anni in Eurolega. Questo giocatore era più bravo di tutti noi, e lo sapeva, ma il nostro allenatore non gli concesse mai alibi,  non sorvolò mai su nulla. Diversi allenamenti sono terminati con questo ragazzo nello spogliatoio per la sua mancanza di rispetto verso gli allenatori. Credo che tutto ciò sia stato positivo per lui visto i successi che ha avuto nella sua carriera. Forse dipende dal fatto che i coach non gli hanno mai permesso di essere irrispettoso. Se gli avessero permesso di fare ciò che voleva mi chiedo se avrebbe avuto lo stesso successo. Ne dubito.

3. Non permettere a nessun giocatore di mancare di rispetto ad un  compagno di squadra. Ciò significa che non si consente di sminuire o ridicolizzare alcun compagno per qualsiasi motivo. Gli allenatori devono avere il controllo e quando un altro giocatore sminuisce un compagno ciò danneggia realmente la squadra e da l’idea alla squadra che il coach supporti questo tipo di comportamento.

Un giocatore dovrebbe tenere a mente queste cose. Se si hanno problemi li si devono affrontare e risolvere fuori dal campo. Nessun allenatore vuole essere messo in imbarazzo e la maggior parte non lo tollera affatto. Ho visto molti allenamenti di  Coach Rick Majerus a Utah University: non appena un giocatore apriva la bocca durante l’allenamento veniva messo a tacere e gli faceva un gran culo.

I giocatori devono conoscere il proprio ruolo e capire che nessun individuo è sopra la squadra e l’allenatore ha la responsabilità di proteggere tutto ciò. Siate rispettosi e ascoltate. Se non siete d’accordo, parlate con l’allenatore più tardi e in privato. Affrontare queste situazioni nel modo corretto permette di maturare al punto di sviluppare abilità che vi aiuteranno ad avere successo in ogni situazione della vostra vita.»

Brian Schofield

Posted by  on January 13, 2014

Cinque motivi per cui i giocatori non raggiungono i loro sogni…

Dal nostro sito vivibasket.it, una interessante riflessione 

 
5. Danno ascolto a coloro i quali riempiono il loro ego invece che a quelli che dicono loro la verità.

4.Si aspettano che sia tutto facile e alla loro portata e non sono disposti al sacrificio per imparare. Le persone svogliate falliscono.

3.Sono così distratti da non concentrarsi su quello che è necessario per avere successo.

2.Non credono sufficientemente in se stessi. Sono insicuri, stressati, spaventati, dubbiosi, e non ci credono mai fino in fondo.

1.Semplicemente non ci arrivano! Non comprendono quanto deciso impegno e persistenza siano necessari per farcela.

http://www.hoopskills.com

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Indimenticabile, Cesare Rubini, un guerriero dello sport

Ricordare Cesare Rubini è per me ripercorrere i momenti più belli della mia carriera come allenatore.
imageRubini era un mio mito fin da piccolo quando iniziai a giocare a basket, mi allenavo da solo in giardino giocando con un canestro ed impersonando i giocatori delle due squadre. Il Simmenthal era la mia squadra preferita, giocavano tutti i grandi, da Riminucci e Pieri a Masini, Vittori, ma anche Papetti e Gaggiotti, gli ultimi della panchina.
Ricordo le prime partite in tv con la voce di Aldo Giordani, la finale di Coppa Campioni con il mitico Bill Bradley.
Lo conobbi tanti anni dopo, ero un giovane allenatore di 26 anni, ci convocò a Rieti: ero con Gianni Piccin, in una stanza scura di un albergo, ci comunicò che avremmo fatto da assistenti ai Centri di Addestramento Sud, a Montecatini, e Nord a Gorizia, poche parole, con il suo vocione, la gioia che sprizzava da tutte le parti.
Lo incrociavo nelle varie occasioni in cui collaboravo con il Comitato Allenatori nei clinic ma poche parole, avevo un grande rispetto ed ero un po’ intimorito da lui.
Nel 1985 il secondo incontro a Firenze, era arrabbiato perché durante un suo intervento al clinic qualcuno aveva osato fischiare, chi c’era ben ricorda come fulminò tutti con una sonora imprecazione che zittì la platea di oltre 800 allenatori che restarono in silenzio a seguire fino in fondo la sua relazione. Si rivolse a me nell’atrio del palazzo in modo secco: «di Lorenzo, Bianchini ha detto che ti vuole come assistente per il viaggio in Cina, ringrazia Puglisi! Io non ti conosco, vedremo…! Ma ricordati che in nazionale non si parla, nessuno deve sapere cosa noi diciamo!». Io non credevo alle mie orecchie. Un ricordo dolcissimo per me: fu la prima volta che mio padre, dopo 19 anni di basket, mi abbracciò e mi fece i complimenti!
Rubini in CinaFu un’esperienza stupenda da Hong Kong a Pechino, a Shangai, a Nanchino per poi tornare a Pechino, mille ricordi, me ne tornano in mente due in particolare. Il primo a Shangai in cui evitai a Luisella, sua moglie, di essere travolta da una bicicletta e lei mi elesse suo salvatore! Lo chiamava “dromi” per la sua andatura che, diceva, gli ricordava un dromedario.
Il secondo fu alla fine dell’ultima partita vinta con la Cina in un palazzetto da 20mila persone stracolmo. Preparammo la partita con una zona adattata che Valerio Bianchini fece spiegare a me negli spogliatoi. Quando tornammo felici per la vittoria, Rubini mi chiamò e mi disse: «di Lorenzo non pensavo fossi così bravo, complimenti!». Mi squagliai!
Quell’inverno dopo poche partite mi affidarono la squadra dopo l’esonero di Pentassuglia, e incontrai Rubini in aeroporto, a Fiumicino, lui arrivava con un aereo e io partivo, lasciò il suo gruppo attraversò la pista e mi venne a dare l’in bocca al lupo, con gli addetti alla pista che lo rincorrevano.
Lo ricordo al nostro primo incontro a Zagabria, nel 1989, quando fui assunto al Settore Squadre Nazionali, ormai con me era quasi affettuoso, in un modo molto simile a quello di mio padre: burbero, ma sempre pronto a dire la parola giusta.
Iniziai ad allenare insieme a Mario Blasone, una scuola dura ma formidabile e ad ogni occasione Rubini non perdeva occasione per ripeterci che a lui non interessava vincere, ma voleva che creassimo giocatori per la nazionale A.
Passammo molti giorni a Fontane Bianche, vicino a Siracusa, per la preparazione al primo Mundialito Under 20. L’albergo era sulla spiaggia, lontano da qualunque centro abitato, per cui si decise di prendere un’auto a noleggio. Fummo inviati a ritirarla, ma con gran sorpresa non risultava niente, Rubini cominciò ad arrabbiarsi e poi alla fine scoprimmo che la macchina era stata prenotata sì, ma a… Syracuse, nello stato di New York, e tutto finì in una grande risata. Un altro episodio divertente (ma mica tanto) fu quando osai passargli il sale! «Ma che napoletano sei, – disse – non si fa mai così, mettilo sul tavolo!», e io che volevo scomparire.
Quell’estate, il giorno del mio esordio da capo allenatore a Bormio, dovetti lasciare la squadra, perché morì mia mamma e lui come sempre mi chiamò con grande affetto.
Ero l’assistente della nazionale Cadetti, ma lui volle che preparassi una relazione su tutti i giocatori segnalando quelli che, a mio parere, erano da nazionale A. Ricordo che segnalai Ale Frosini, che Mario Blasone aveva scovato a Castelnuovo Berardenga, negli anni lui ricordò questa cosa.
imageIniziammo le frequentazioni nei raduni della nazionale e nelle riunioni, sempre contenute ma poche parole bastavano. L’estate del 1990 fu quella del titolo Juniores come assistente di Blasone: fu una grande esperienza per me, molto pesante perché Mario era molto esigente, al ritorno mi invitò a Positano, al Villa Murat, dove lui era solito passare una settimana di riposo settembrino, fu una esperienza bellissima, veramente un padre, mi ascoltò, commentò poco, ma cambiarono molte cose tra di noi.
L’anno successivo fui scelto come assistente di Sandro Gamba per gli Europei di Roma, una manifestazione straordinaria. Arrivammo in finale perdendo contro l’ultima nazionale della Jugoslavia unita, davanti a 15mila spettatori. Eravamo in un bellissimo hotel alle spalle del Pantheon con una macchina solo per noi con cui andavamo ad allenarci al Palaeur. Sandro e Tonino Zorzi mi chiamavano sempre “Pulicano”, ed un giorno l’autista che ci accompagnava non vedendomi chiese a Rubini: «Ma oggi il signor Pulicano non viene con noi?», seguirono una grandissima risata e sfottò per vari giorni.
Alla fine fu un trionfo e fu lui che si adoperò per trovare la medaglia per me ed un altro paio di persone che non l’avevano ricevuta.
Fu il primo a cui io telefonai quell’estate dopo la grande vittoria dei ragazzi del 1974 ai Campionati Europei Cadetti, ma come sempre lui mi riportò con i piedi a terra: alla riunione post estate mi richiamò con forza perché non avevo messo davanti a tutti la Federazione ed i suoi componenti che avevano permesso con il loro lavoro di arrivare a quel successo.
In quella riunione si discusse se far continuare il programma con i ragazzi del 1975, che per una scelta della FIBA, erano stati esclusi dagli Europei. Qualcuno suggerìdi risparmiare, ma Rubini mi chiese con il suo vocione: «di Lorenzo ma questi giocatori possono diventare buoni per la nazionale?». Alla mia risposta affermativa confermò il programma. Da quel gruppo sono arrivati, tra gli altri, Galanda, Marconato, Scarone, Damiao e altri. Nel 1993 mi chiamarono con la nazionale Militare che veniva da due anni di mancati successi, c’era il problema Moretti, che avrebbe dovuto allenarsi e giocare con la Nazionale A, io avrei dovuto vincere ma tenere fuori Paolo. Era facile perché la squadra era comunque fortissima, l’unico problema era il Colonnello Magrini che ad ogni costo avrebbe voluto Moretti. Alla fine ci riuscimmo e come sempre lui fu tra i primi a complimentarsi.
Mi piaceva sempre fargli gli auguri per il suo compleanno, anche se lui non gradiva, perché tra l’altro coincideva con il giorno dei morti, ma alla fine sapevo che era contento.
Uno degli ultimi ricordi che ho di lui è legato ad una riunione del CNA a Bologna dove venne in quanto Presidente Onorario. Volle che mi sedessi vicino a lui, era amareggiato per l’incredibile ostracismo che veniva fatto ad Ettore e per la mediocrità delle questioni proposte. Anche quella volta da lui poche parole secche che arrivarono al centro della questione, ma purtroppo alcuni dei presenti erano fatti d’acqua e fecero finta di niente.
Fu l’ultima volta che lo vidi, ci parlai a telefono alcune volte, gli ultimi anni parlavo solo con Luisella, l’adorata moglie, con cui avevo un rapporto speciale dopo il viaggio in Cina, e lei mi raccontava, accoratamente, di lui, era uno strazio per me, che con il passare degli anni sono un po’ diventato come lui, commuovendomi alle lacrime quando sento una emozione forte.
L’ultimo saluto fu, al suo funerale, non potevo mancare, arrivammo io e Dante De Benedetti, in quella enorme chiesa piena di quelli che lo avevano amato e rispettato. Fu un giorno difficile, ma uno come Rubini resta dentro.
Con il suo libro rivivo la sua storia e vorrei far conoscere ai ragazzi d’oggi quest’uomo straordinario nella sua grandezza, ma soprattutto nella concretezza di tutto ciò che ha fatto, certo che lui mi guardi da lassù.

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Ettore Messina: il senso dello sport

In una intervista della passata stagione (purtroppo solo in inglese), Ettore ci parla, con grande chiarezza, del suo modo di intendere la metafora sport-vita!

Boscia Tanievic, una storia esemplare

Nel mio vagabondare sul web mi sono imbattuto con questa splendida chicca

Buzzer Beater Book – Storie scritte a fil di sirena di Buzzer Beater Blog

Un mini libro su Boscia Tanievic, a cui sono legato da lunga amicizia. Ricordo ancora il mio esordio nel derby a Caserta, nel novembre 1995, dopo aver vinto le mie prime partite in serie A, Boscia venne da me affettuosamente prima della partita a salutarmi.

Quante volte l’ho incontrato da allora? Una cosa ho sempre trovato in lui: sempre semplice, vero, una caratteristica dei grandi!

“SONO SOLO UNO CHE NON SOPPORTA PERDERE”

Durante la guerra che sancì la fine della Jugoslavia non era insolito per gli abitanti del Montenegro veder sfrecciare sopra le proprie teste aerei carichi di bombe. Si racconta che un giorno un pastore, alzando gli occhi al cielo e vedendo per la prima volta i bombardieri squarciare l’aria, sollevasse il bastone e cominciasse a urlare:“Finalmente un degno nemico!”Penso che questo dica tutto quello che c’è da sapere su quel popolo.Provate a chiedere di Boscia Tanjevic in giro. Forse vi accorgerete di come la storia stia gradualmente cominciando a lasciar spazio alla leggenda. Troverete chi vi dirà che ha vinto tutto. Troverete chi vi dirà che ha perso molto. Qualcuno affermerà che in più di quarant’anni di carriera è rimasto fedele a se stesso, altri vi risponderanno che lo ha pagato sulla sua pelle. Tutti, tutti, vi diranno che è un uomo che ha sempre camminato a testa alta. […]

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Il Coach Andrea Capobianco by Chiara Turrini

Bighellonando su Twitter mi è capitata questa bella intervista di Chiara Turrini ad Andrea Capobianco, un manifesto dell’essere Coach, questo il link: andrea Capobianco