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“Allenare”, la mia lezione al Corso Allenatore Nazionale di Bormio 2015

Quest’anno al Corso Allenatore Nazionale di Bormio,  ho svolto un intervento in cui ho portato agli allenatori le testimonianze dei grandi Maestri che mi hanno accompagnato ed il mio modo di intendere il più bel lavoro del mondo: Allenare!

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Il video completo della lezione

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Le slide della lezione

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La visione di Bianchini e Tavcar

La prima volta di Ettore

Un canestro in più o in meno

Campioni d’Europa

Ettore Messina: la sintesi dell’allenare

Su Facebook mi passa un’immagine con un’ntervista ad Ettore dopo lo straordinario evento a Piazza Santo Stefano a Bologna della settimana passata.

Damiano Montanari riporta il pensiero di Ettore che come sempre riesce a sintetizzare in poche parole quelle cose che tanti di noi, forse, pensano, senza riuscire poi ad esprimerle così semplicemente e chiaramente. Parole semplici, concetti chiari, ma, come sempre, difficili da accettare, perché vuol dire accettare i propri limiti, autodisciplina.

“Oggi si parla molto di fare squadra, una metafora abusata. Il vero significato è avere voglia di sedersi in panchina senza rompere le scatole, fare un passaggio in più per un compagno, fare un lavoro non visibile. Per riuscirci servono regole di autodisciplina. Per molti anni sono stato un grillo parlante che ha anche preso qualche scarpa in faccia. Ma sono stato fortunato, perché alla fine ho trovato gente che mi ha ascoltato. Per vincere la voglia di ascoltarsi è fondamentalePopovic, il mio head coach a San Antonio, unanimemente riconosciuto come il miglior allenatore dell’NBA, dice sempre che la sua fortuna è avere campioni come Ginobili e Duncan che gli hanno permesso di allenarli. Avere un Duncan che, dopo un rimprovero, si alza in piedi e dice: “L’avrà detto male, ma ha ragione lui”, è basilare. Perché alla fiducia tecnica si affianca quella relazionale.

La chiave per gestire il conflitto è il confronto “Come diceva Eraclito, il non confronto è l’anticamera dell’autodistruzione. Non si può essere amici dei propri giocatori. Io lo sono diventato di BrunamontiDanilovic e Rigaudeau, quando loro hanno smesso di giocare. Creare prima un finto cameratismo è sbagliato e scorretto nei loro confronti. Serve una comunicazione diretta, senza triangolazioni. E bisognerebbe voler bene ai propri giocatori anche quando ci si scontra: Popovic ci riesce, io no.”
                    Ettore Messina intervista di Damiano Montanari
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Facebook, l’italiano e la cultura dello sport

Divento matto davanti alla superficialità dello scrivere e del leggere. Sarà perché da sempre ho scritto bene, sono stato educato alla lettura dal mio maestro Lippa, alle scuole elementari, ho letto di tutto, da Salgari al Giovane Holden, da Garcia Lorca a Garcia Marquez, saggistica, gialli!
Ho abbandonato la scrittura per la pallacanestro ma, prima Rubini, con il libro che mi fece scrivere, poi Tommaso Biccardi, con le sue lezioni per preparare i miei interventi pubblici, mi hanno pian piano riavvicinato alla scrittura.
I social hanno fatto il resto. Prima i post sulla mia pagina, poi le note e quindi con il Blog, ho ripreso a scrivere. La mia educazione giovanile mi impedisce di scrivere cose senza senso, la mia amica Francesca mi aiuta, stimolandomi a fare ciò che, bontà sua, potrei fare meglio, e quindi pongo sempre più attenzione a ciò che leggo e scrivo.

Eppure questo utilizzo ingannevole del web e dei social sta prendendo il sopravvento. Si legge un mare di stupidaggini, di messaggi ingannevoli, di fanatismo bieco infarcito di luoghi comuni.
Ricordo le migliaia di post sui tifosi olandesi che devastarono Roma, mille sfaccettature di sottocultura, dimenticando cosa fosse successo in tante partite del campionato italiano.
Trovo un articolo sul “vincere” in cui non c’è una idea concreta, si riporta una serie di frasi senza senso logico, spesso in contraddizione tra di loro, e tutti a commentare, con insulsa saccenza, senza realmente leggere, perché, con un po’ dì attenzione, ci si renderebbe conto delle tesi poco attendibili. Troppo spesso ci si sofferma ad un titolo, a due parole e poi si parte esprimendo la propria idea, senza neanche leggere il contenuto dell’articolo.
Ricordo la polemica sulle dichiarazioni di Sacchi, è emblematica, io sono partito dai titoli sparati sul web e sui giornali, restando un po’ sorpreso perché non mi parevano da Sacchi. Poi mi sono trovato a leggere un articolo del Sole 24 ore in cui c’era una difesa a spada tratta di Arrigo Sacchi, con l’invito ad ascoltare l’intervista integrale. Sono andato sul sito de Il Tirreno ed ho ascoltato… C’è poco da dire, Sacchi ha fatto una stupidaggine, le parole sono molto chiare, poi si può dire ciò che si vuole per giustificarsi ma il senso delle sue frasi è quello riportato dai titoli dei giornali.
Il vero errore è sottovalutare ciò che si dice e si scrive, la cassa di risonanza mediatica è sempre più grande, non si può parlare a ruota libera.
Questa idea va tenuta presente sia nel leggere che nello scrivere, sia come uomini pubblici che come semplici osservatori, l’attenzione ai contenuti deve essere pari all’attenzione alla forma.

Finisce una stagione sportiva ma siamo già partiti per la nuova!

Con la partita di stasera degli Under 13 Elite finisce la nostra stagione sportiva, con 110 partite ufficiali giocate dalla serie C alle bimbe dell’Under 13 e gli Esordienti. Risultati più che positivi, l’obiettivo è quello di migliorarsi, partendo dal nostro saper essere, perché la differenza deve essere quella, se miglioreremo nella coscienza di noi stessi, dai dirigenti, ai tecnici, ai ragazzi ai loro genitori, avremo già fatto uno scatto in avanti.

La serie C ha fatto un buon campionato, lanciando tanti ragazzi e confermando il valore dei Senior; i 17 Eccellenza sono arrivati ad un passo dalle finali nazionali con un gruppo molto cresciuto con Alfredo Lamberti; i 17 Elite sono migliorati enormemente in questo campionato; i 13 Elite, protagonisti di un grande recupero hanno raggiunto un ottimo quarto posto; gli esordienti hanno ben figurato cosi come le ragazze dell’Under 13 femminile che hanno disputato una straordinaria stagione.

Da stasera  riprenderemo gli allenamenti con i ragazzi  per superarci, e noi dirigenti ci riuniremo intorno ad un tavolo per analizzare i risultati di questa annata per ripartire più forti che mai.

Vivi Basket è nel suo decimo anno di vita, vuole festeggiare con una serie di attività questa ricorrenza, aprendosi ancor di più al territorio. Da domani si parte e nessuno ci fermerà!

Esordienti…

Torno dopo aver visto quattro giornate di partite dei ragazzi della categoria esordienti. Erano anni che non mi capitava! 

Tanti gli interrogativi.. 

Tecnicamente, ho trovato molte differenze: ho visto alcune squadre estremamente preparate nei fondamentali, sia con tecnica più che raffinata sia come gioco di squadra, altre organizzate con “penetra e scarica”, spaziature precise, altre ancora che attaccano il ferro in maniera decisa, e altre squadre ancora che sono molto meno strutturate e che chiaramente in queste situazioni pagano dazio.

Ho visto molti, troppi bambini che contestano  i fischi arbitrali e che assumono atteggiamenti da grandi, oltre al fatto che sono pure ben supportati dagli allenatori (anche se in questa categoria dovrebbero essere “istruttori”). Sorvoliamo sui commenti fuori campo. Venerdì ho sentito, con piacere, una mamma che rimproverava suo figlio più grande che richiamava il fratello in campo. Purtroppo una mosca bianca.

Ho visto un – cosidetto – istruttore “incavolarsi” in maniera spropositata con un bimbo che era appena uscito dal campo per una forte botta alla schiena e che non voleva rientrare: gli ha detto che aveva paura…!

Ottimo il lavoro dei mini arbitri con istruttori e, soprattutto, San Ninì Ardito, con una partecipazione positiva, collaborativa, come non mai. Arbitri migliorati giorno dopo giorno, più falli ed infrazioni chiamati con il passare del tempo, BRAVI!

Noi siamo contenti di questa esperienza, un bel gruppo in prospettiva, a questa età è difficile è sbagliato fare previsioni. Si può lavorare bene!

Come impostare il mini basket? Cosa insegnare? Pensiamoci. Ma per favore non perdiamoci nella teoria e nella filosófia (come diceva Mirko Novosel,con l’accento sulla seconda “o”).

Sicuramente il primo obiettivo è predicare educazione e rispetto per tutti: bambini, istruttori e genitori!

Come dice il mio amico e maestro, Ettore Messina: “ci vuole il tempo che ci vuole!”

VIVI BASKET!

Quando la volpe non arriva all’uva: il coraggio di dire “non riesco”!

Ho chiesto alla nostra Tonia Bonacci, di scrivere un articolo su uno dei maggiori problemi che si incontra allenando i giovani, “i limiti“.

Tonia, psicologa, psicoterapeuta SIPI, esperta in psicologia dello sport, ha collaborato con il Progetto Vivi Basket dal 2005, proseguendo con me il lavoro iniziato con la Polisportiva Partenope nel 1998, creandosi un bagaglio eccezionale di esperienze sul campo.

Io credo che si possa allargare questo discorso sui limiti a tanti contesti della società attuale. E come sempre Tonia  in questo suo intervento ci regala interessanti spunti di riflessione.

Credo fermamente nell’idea che lo sport formi e aiuti a crescere come persona, fin dalle primissime fasce di età.

Ciò che accomuna chi fa sport è il trovarsi di fronte ad una difficoltà. Per quanto ci si diverta, si stia insieme, si condividano obiettivi, per quanto si possa usare il contesto sportivo per fare nuove amicizie, chi fa sport prima o poi, che lo si voglia o meno, proverà l’esperienza di essere posto di fronte ad una difficoltà, ad un ostacolo che non si sa affrontare, almeno non all’inizio, e che si vuole e che si cerca di superare per imparare, per diventare più abili.

Quell’ostacolo si chiama limite.

Può essere rappresentato da un attrezzo da maneggiare in un certo modo, un gesto tecnico, una lettura tattica, un avversario, sé stessi o il proprio vissuto. 

La spinta a tentare di trascendere il limite si chiama agonismo. Oggi si fa una gran confusione, soprattutto nello sport giovanile, tra agonismo e la richiesta-pretesa di vincere a tutti i costi.

Agonismo significa: tendenza a superare un limite.

Vincere a tutti i costi significa: negare che ci siano limiti e immaginare di essere onnipotenti, cioè io vinco sempre contro tutto e tutti.

Lo sport sano, l’agonismo sano, insegna

  • gestire sé stessi dinanzi al limite;
  • a tentare di trascenderlo da soli e in collaborazione con altri.

Ma è un’esperienza complessa, perché necessita del coraggio di dire a sé stessi: non riesco, ma voglio provare ancora e ancora, fino a poterci riuscire. 

Cosa serve per riuscirci? 

  • che ci sia un adulto (ovvero non solo una persona più grande di me) che sia capace di riconoscere con me il fatto che io “non riesca”
  • che questa persona sappia insegnarmi, sostenermi
  • che sappia anche accettare che posso non riuscire a superare quel gradino
  • che sappia starmi accanto per trovare nuove strade

Ma di questi adulti ce ne sono pochi, soprattutto sui campi dove fanno sport i bambini e i ragazzi. In questi spazi ci sono spesso genitori e allenatori che davanti alla difficoltà del proprio piccolo atleta tendono a deresponsabilizzarlo e a deresponsabilizzare loro stessi. È colpa dell’arbitro, del genitore che non lo educa, dell’allenatore che non capisce niente, del dirigente che ha preferenze e non dà a tutti le stesse opportunità, del campo, del clima (?!?). Oppure inizia l’ipercritica: si fa un’analisi di tutti gli errori commessi, spesso fatta con rabbia e delusione.

Quali sono le possibili conseguenze di questi comportamenti? 

Il rischio è di vedere ragazzini

  • che credono di essere campioni già pronti per le squadre nazionali
  • che al primo ostacolo si arrabbiano, spesso in modo plateale
  • che assumono atteggiamenti snob (del tipo “non mi meritano in questa palestra!”)
  • che si disperano
  • che svalutano sé stessi oltre il senso di realtà
  • che abbandonano l’attività sportiva.

Invece, raramente ho sentito dire:

  • É vero, hai giocato male, secondo te come mai?
  • Cosa puoi fare per migliorare?
  • Come posso aiutarti?

Credo fortemente che:

  • lo sport insegni a vivere e che l’agonismo sia un valore che aiuti i bambini a diventare adulti, capaci di confrontarsi con le difficoltà e con i successi. Che insegni e a comprendere che la fatica e l’impegno portano a diventare sempre più bravi, ma non necessariamente ad essere un campione.
  • sia illusorio e pericoloso insegnare ad un bambino che “può” tutto; è altrettanto illusorio e pericoloso insegnare ad un ragazzo che non è necessario faticare per ottenere risultati, dato che lui “ha talento”.
  • il compito di un buon genitore e di un buon allenatore sia di permettere ai giovani atleti di non brancolare nel buio nei momenti difficili, ma di essere sostenuti nel raggiungere obiettivi adeguati alla propria crescita.
  • che per fare ciò occorra avere i piedi a terra: si deve avere il senso di realtà, che ci fa confrontare con le risorse che abbiamo e con le difficoltà che ne ostacolano l’espressione, ma si deve anche insegnare a mantenerlo questo senso di realtà.

Come si sviluppa il senso di realtà? Attraverso l’allenamento al confronto.

  • con me stesso
  • con i compagni e avversari
  • con un adulto

Confronto con me stesso: devo considerare i miei progressi, analizzando cioè da dove sono partito a dove sono arrivato (a livello fisico, tecnico e mentale), in un anno, poi in un semestre, quindi in un mese, e in una seduta di allenamento. 

Confronto con i compagni e con gli avversari: perché  sono loro che ci fanno “da specchio”. 

Confronto con un adulto di cui ci si fida: 

  • perché mi dice la verità e lo fa per aiutarmi
  • perché è competente e si prende la responsabilità di insegnarmi cose che sono adeguate al mio fisico e alla mia capacità del momento
  • perché so che tutto ciò che fa lo fa per il mio bene e non mi mette in condizioni di pericolo
  • perché non mi denigra né mi allontana se sbaglio, ma pretende impegno
  • perché sa fermarsi e fermarmi quando esagero e sa sostenermi se mi svaluto per paura
  • perché non mi usa per realizzare i suoi sogni infranti

L’allenamento Integrato

Credo fermamente nell’utilità degli allenamenti integratidove il livello tecnico-tattico si integra a quello fisico, ed entrambi i livelli si integrano a quello relazionale.

È l’unico modo per mettere al centro la persona (atleta) e la sua relazione con i suoi pari (avversari e compagni) e con gli adulti di riferimento (genitori e allenatori in primis), per capire come allenare quel bambino o ragazzo, come migliorare la performance senza mai perdere di vista il suo bene, e ciò che lo aiuta a diventare una persona migliore ed un bravo atleta.

Ma penso che un allenamento integrato non sia per tutti gli allenatori:

– non si può improvvisare: occorre che gli allenatori studino, si formino, si aggiornino con esperti

– non esclude la sofferenza: è solo attraverso la rabbia, la paura e il dispiacere di non riuscire  che si può arrivare alla gioia di vedersi migliorato

– non si accetta per inerzia, è uno stile di vita in cui il rispetto per se stesso e per l’altro sono sullo steso piano e non si può rinunciare all’uno o all’altro

– non lavora per ottenere tutto e subito ma garantisce a tutti il tempo adatto per sviluppare competenze e dare opportunità

– non crea false illusioni ma aiuta a sviluppare una consapevolezza di sé, delle proprie modalità relazionali e del proprio modo di fare performance in campo e nella vita

– non dà per scontato nulla ma pone, ogni volta, davanti lo specchio e chiede di mettersi in discussione con intelligenza, per pensare, pensare insieme e risolvere problemi in campo e fuori

Per questo fare sport è un gioco serio!

Buon divertimento, buon allenamento, e buona vita!

Carlo Della Valle, essere padre.

Nella mia quotidiana review dei Social e della stampa mi sono imbattuto in una lunga e bella intervista di Fabrizio Provera a Carlo ed Amedeo della Valle su DailyBasket.

Conosco Carlo dal 1977, lo incontrammo ad un torneo a Vasto, l’ho avuto in Nazionale nella Tournée in Cina nel 1985, per poi ritrovarlo papà di Amedeo.

Erano le Finali Nazionali Under 15 del 2008, ci trovammo a parlare di Amedeo e di tutto il gruppo con cui giocava. Qualche anno dopo mi chiamò per avere notizie delle modalità per prendere contatto con i college, visto che Gaetano Spera, coetaneo di Amedeo, era approdato a St. Peters College.

Carlo ha qualche cosa in comune con me, nell’educazione familiare, nella sua esperienza di vita vedo tante cose simili alla mia. Sempre disponibile, cortese e concreto nel suo parlare e fare. 

Da questa intervista ho estratto due pezzi in cui Carlo parla del rapporto padre – figlio, che trovo estremamente significativi, da rifletterci sopra!

“….Noi gente di Langa siamo creativi, diffidenti, caratteriali. Però, basti pensare a quante persone hanno avuto successo nel mondo partendo da qui, abbiamo una visione e una determinazione ferree. Del resto noi non siamo piemontesi, siamo gente di Langa.. Chi mi chiamò per primo il Marchese? Fu una cosa sempre di Dido, la mia famiglia aveva uno stemma nobiliare. Ma sai, ho una tale leggerezza interiore nel vivere le cose, la capacità di non prendermi troppo sul serio, ma anche quella di decidere cosa conta o no. Vengo da una famiglia dove mio padre era medico, mia madre era medico, mio fratello è medico. Sembrava un miracolo che io facessi altro. Però questo mio carattere diverso non è mai stato contrastato: solo, mi hanno sempre insegnato a fare bene tutto quello che decidessi di fare. Una leggerezza che ho trasmesso ad Amedeo, ho voluto che lui fosse libero, poi l’ho allenato quand’era bambino, poi siamo andati a vedere le prime partite. Ma tutto molto light. Non ci è mai importato che diventasse un campione, ad Amedeo è interessato il percorso. Lui  viene da una famiglia agiata e deve confrontarsi col mondo. Io vengo da un’educazione severa ma molto formativa, lui ha potuto scegliere- volta per volta- cosa avrebbe fatto. Essere mio figlio può essere stato un handicap per lui, specie a causa di alcune malelingue. Amedeo ha imparato che se vuoi ottenere dei risultati devi fare dei sacrifici; per lui il basket è sempre stato determinazione e impegno. Gli abbiamo sempre detto ‘possiamo accettare che tu sia il giocatore più scarso della squadra. Non possiamo accettare che tu non dia il massimo’. Questa è l’impostazione cui Amedeo è sempre stato abituato. Ci sono genitori che per i figli fanno molto in modo materiale, chi lo fa in altro modo. La cosa migliore che penso di poter fare per Amedeo è dargli delle qualità per affrontare al meglio la vita: se scendi in campo dando il massimo, magari non vinci, però difficilmente perdi. Ecco cosa vorrei trasmettergli. Cerco insomma di contaminarlo con la leggerezza che avevo io alla sua età. […] 

Sai, un padre dev’essere sempre vicino a suo figlio nel modo migliore. Io sono sempre andato controcorrente, e spiego ad Amedeo che la gente vede di continuo le stesse soluzioni, che spesso possono essere giuste ma non le migliori. Lo esorto ad avere sempre un senso critico personale, ed è una cosa che gli riesce bene. Se sei pronto a cambiare, a percepire, allora puoi sempre crescere. Ed in questo lui è avanti anni luce, capace di adattarsi alle situazioni con una determinazione assai rara. Amedeo non è un bianco esplosivo, è un ragazzo come mille altri: eppure scelse Ohio State, un posto dove giocano atleti di colore estremamente fisici. Eppure ha vinto quella sfida, anche giocando poco, perché quando era chiamato si faceva trovare pronto. Poi sai, nella vita può accadere di tutto.”

Carlo e Amedeo Della Valle. Il marchese ‘beat’ e il marchesino che sprizza Leggerezza di Fabrizio Provera

Josè Maria Buceta: Insegnare basket a ragazzi under 14

Sulla time line di Twitter stamattina mi è comparso un tweet di Josè Maria Buceta, spagnolo, psicologo dello sport ed allenatore di basket. L’ho conosciuto molti anni fa ad un convegno della FIBA a Madrid. Allenatore di basket, psicologo, professore universitario, ha collaborato con diversi top club, uno per tutti il Real Madrid, per diverse federazioni ed in diversi sport. 

Sono andato su suo profilo ed ho trovato questo link, che vi propongo, in cui, in un Corso organizzato dalla FIBA, parla di come allenare ragazzi al di sotto dei 14 anni. Il video è in inglese ma molto semplice da comprendere e, come a volte accade, dice cose in apparenza scontate ma fondamentali e spesso dimenticate.

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I libri scritti da Josè Maria Buceta

Maurizio Cremonini, il Mini Basket ed il Basket

Maurizio Cremonini ha tweettato:

“@cremoninimauri: #italbasket #basket Da grande vincerai il trofeo delle regioni ! se sopravviverai al #minibasket degli incompetenti http://t.co/ApWIdeEvIZ”

C’è tanto da ragionare su questa affermazione.

Vera in parte ma sicuramente qualcosa che non va nel mini basket c’è! 

Fermo restando il concetto che nella propria palestra ognuno è libero di fare ciò che vuole. L’unica cosa certa è rispettare i bambini e farli innamorare del nostro gioco, il primo parametro per valutare un istruttore è la % di bambini che tornano in palestra, è una condizione necessaria ma non sufficiente!

Rifletteró e ci tornerò sopra. Nel frattempo mi piacerebbe conoscere la vostra idea!

 

Ettore Messina in una bella intervista su corriere.it

Ma qual è la via degli Spurs al basket?
«Una filosofia della pazienza, non saltare mai dei passi, cercare giocatori che magari altrove non hanno avuto successo e invece qui si combinano perfettamente. L’attenzione alle persone. Il senso del noi. L’incoraggiamento al dissenso».

Una bella intervista di Alessandro Pasini, inviato a San Antonio (Texas) su www.corriere.it

Nell’arena degli Spurs, in panchina con Ettore Messina mentre lì a pochi passi i campioni Nba si scaldano per il match con gli Houston Rockets. La «leggenda europea», come chiamano Messina negli States, è da quest’anno l’assistente allenatore della leggenda americana, Gregg Popovich. Due partite da solo le ha già guidate, e vinte, a novembre. E un giorno, si dice, tutto questo sarà suo.

«Se ne è parlato molto, però sinceramente credo che la successione sia lontana. Non solo con me, ma in assoluto. Popovich è bello carico e deciso a continuare».
Quelle due partite da capo allenatore – il primo non Usa della storia dell’Nba – sono però l’inizio di qualcos’altro, o no?
«È vero che tutti coloro che sono passati di qui hanno avuto la grande chance, dunque sarei bugiardo se dicessi che non ci penso. Non ora però».
E la paventata fine di uno storico ciclo dopo 5 titoli in 15 anni?
«Duncan potrebbe continuare una stagione, Ginobili anche, la squadra sta giocando bene, ne abbiamo vinte 9 di fila, siamo in entrati in forma playoff (iniziano il 18, ndr), pronti a difendere il titolo. Pensieri negativi non ci sono. Io ho tre anni di contratto: potrebbe essere interessante anche partecipare alla futura fase del rinnovamento. Questo è un club che ha strategie chiare per aprire un altro ciclo».
Nonostante le sue 4 Euroleghe, 10 campionati tra Italia e Russia, l’argento con gli azzurri agli Europei più tutto il resto, lei parla spesso di «venerazione» per Popovich.
«A volte al suo fianco mi sento piccolo».
Perché?
«Per il modo in cui prepara la partita, la cura dei dettagli, gli scenari che disegna, la freddezza di analisi: Pop è lucido persino nell’incazzatura…».
Il coach perfetto.
«Già. Tu lo senti e dici: vabbé, io sono scarso, e pazienza».
Se lo dice Messina, figuriamoci gli altri. Ma qual è la via degli Spurs al basket?
«Una filosofia della pazienza, non saltare mai dei passi, cercare giocatori che magari altrove non hanno avuto successo e invece qui si combinano perfettamente. L’attenzione alle persone. Il senso del noi. L’incoraggiamento al dissenso».
Ovvero?
«Popovich dice spesso: dammi un’opinione diversa, ne discutiamo e troviamo la soluzione. Magari a cena».
Laureato in Economia, lei nei seminari ai manager 15 anni fa insegnava che «la squadra in cui tutti si vogliono bene non esiste, e se esiste perde». La sua filosofia era già Pop prima di incontrare il maestro.
«Era così a Bologna, è così qui. Popovich discute anche con i suoi uomini carismatici come Parker, Ginobili e Duncan. Il confronto è un passaggio decisivo in ogni gruppo di lavoro».
Gli Spurs sono il tiki-taka del basket?
«Un paragone interessante. Anche per noi il passaggio è un fondamentale almeno quanto il tiro: devi sapere come, quando e a chi passare. In quel senso sì, lo siamo».
E poi siete internazionali: otto stranieri in rosa.
«Sì, ma la variabile decisiva è la continuità. Lo straniero qui non passa e va, si radica. Parker è a San Antonio dal 2001, Ginobili dal 2002. Storie lunghe. Come Danilovic a Bologna o D’Antoni a Milano».
Dalla via Emilia al Texas, secoli dopo ha ritrovato Ginobili e Belinelli.
«Curiosa la vita. Manu ha lo stesso entusiasmo di 13 anni fa. Marco lo avevo lasciato bambino e l’ho ritrovato uomo».
Lo Sperone che l’ha impressionata di più?
«Duncan».
Leonard, il migliore delle Finali 2014, potrà essere il suo erede?
«Difficile, personalità molto diverse. Però è un giocatore che ogni giorno ci sta stupendo un po’ di più».
Chi è il suo numero uno assoluto del 2015?
«Harden. Mi inquieta molto per come domina certe partite (non questa però, che i Rockets perderanno di 12 punti, ndr)».
Qual è il plus del sistema sportivo Usa?
«Meritocrazia. Quando sento parlare di quote giocatori comincio a preoccuparmi. Predeterminare così non serve, non solo nello sport».
Jordi Bertomeu, a.d. dell’Eurolega, al Corriere ha detto che il basket italiano è immobile.
«La realtà è quella, l’analisi è complessa. Concordo sulla questione palazzi: ci sono strutture bellissime ovunque in Europa tranne che da noi. Ma lo sport è lo specchio del sistema politico. In Italia c’è da tempo un chiaro problema di leadership. E se manca quella…».
Dieci anni all’estero tra Madrid, Mosca, Los Angeles e San Antonio significano…
«Sul piano lavorativo un’esperienza bellissima. Certo, l’Italia un po’ mi manca. Però penso che ormai il nostro sia diventato un meraviglioso paese dove andare solo in vacanza. E mi spiace».
San Antonio, invece, com’è?
«Mi ricorda i tempi di Treviso: molto verde, gente tranquilla, la scuola per mio figlio a 10 minuti. Città ideale».
Lei tornerebbe in Nazionale?
«Per ora c’è un eccellente allenatore e ciò che conta è conquistare l’Olimpiade. Se poi un giorno le cose dovessero cambiare e me lo chiedessero, ne sarei onorato».
Ma sarebbe possibile una gestione part time, metà in America, metà in azzurro?
«Non mi pongo adesso il problema».
Metta World Peace ha detto che la stima molto.
«Ai Los Angeles Lakers fu lui che quando mi vide la prima volta mi chiese chi avevo allenato, per capire chi fossi. Lui è un grande: un buon ragazzo al quale ogni tanto si chiude la vena».
Metta ha anche detto che gli Spurs possono rivincere il titolo.
«In corsa ci siamo di sicuro».
Metta World Peace e l’Italia: strana coppia?
«Ci serve sicuramente. Gli auguro di conservare serenità e entusiasmo fino alla fine della sua avventura».
A proposito: se pure lei dovesse cambiare nome, che cosa sceglierebbe?
«Gregorio Popovich».