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Quando la volpe non arriva all’uva: il coraggio di dire “non riesco”!

Ho chiesto alla nostra Tonia Bonacci, di scrivere un articolo su uno dei maggiori problemi che si incontra allenando i giovani, “i limiti“.

Tonia, psicologa, psicoterapeuta SIPI, esperta in psicologia dello sport, ha collaborato con il Progetto Vivi Basket dal 2005, proseguendo con me il lavoro iniziato con la Polisportiva Partenope nel 1998, creandosi un bagaglio eccezionale di esperienze sul campo.

Io credo che si possa allargare questo discorso sui limiti a tanti contesti della società attuale. E come sempre Tonia  in questo suo intervento ci regala interessanti spunti di riflessione.

Credo fermamente nell’idea che lo sport formi e aiuti a crescere come persona, fin dalle primissime fasce di età.

Ciò che accomuna chi fa sport è il trovarsi di fronte ad una difficoltà. Per quanto ci si diverta, si stia insieme, si condividano obiettivi, per quanto si possa usare il contesto sportivo per fare nuove amicizie, chi fa sport prima o poi, che lo si voglia o meno, proverà l’esperienza di essere posto di fronte ad una difficoltà, ad un ostacolo che non si sa affrontare, almeno non all’inizio, e che si vuole e che si cerca di superare per imparare, per diventare più abili.

Quell’ostacolo si chiama limite.

Può essere rappresentato da un attrezzo da maneggiare in un certo modo, un gesto tecnico, una lettura tattica, un avversario, sé stessi o il proprio vissuto. 

La spinta a tentare di trascendere il limite si chiama agonismo. Oggi si fa una gran confusione, soprattutto nello sport giovanile, tra agonismo e la richiesta-pretesa di vincere a tutti i costi.

Agonismo significa: tendenza a superare un limite.

Vincere a tutti i costi significa: negare che ci siano limiti e immaginare di essere onnipotenti, cioè io vinco sempre contro tutto e tutti.

Lo sport sano, l’agonismo sano, insegna

  • gestire sé stessi dinanzi al limite;
  • a tentare di trascenderlo da soli e in collaborazione con altri.

Ma è un’esperienza complessa, perché necessita del coraggio di dire a sé stessi: non riesco, ma voglio provare ancora e ancora, fino a poterci riuscire. 

Cosa serve per riuscirci? 

  • che ci sia un adulto (ovvero non solo una persona più grande di me) che sia capace di riconoscere con me il fatto che io “non riesca”
  • che questa persona sappia insegnarmi, sostenermi
  • che sappia anche accettare che posso non riuscire a superare quel gradino
  • che sappia starmi accanto per trovare nuove strade

Ma di questi adulti ce ne sono pochi, soprattutto sui campi dove fanno sport i bambini e i ragazzi. In questi spazi ci sono spesso genitori e allenatori che davanti alla difficoltà del proprio piccolo atleta tendono a deresponsabilizzarlo e a deresponsabilizzare loro stessi. È colpa dell’arbitro, del genitore che non lo educa, dell’allenatore che non capisce niente, del dirigente che ha preferenze e non dà a tutti le stesse opportunità, del campo, del clima (?!?). Oppure inizia l’ipercritica: si fa un’analisi di tutti gli errori commessi, spesso fatta con rabbia e delusione.

Quali sono le possibili conseguenze di questi comportamenti? 

Il rischio è di vedere ragazzini

  • che credono di essere campioni già pronti per le squadre nazionali
  • che al primo ostacolo si arrabbiano, spesso in modo plateale
  • che assumono atteggiamenti snob (del tipo “non mi meritano in questa palestra!”)
  • che si disperano
  • che svalutano sé stessi oltre il senso di realtà
  • che abbandonano l’attività sportiva.

Invece, raramente ho sentito dire:

  • É vero, hai giocato male, secondo te come mai?
  • Cosa puoi fare per migliorare?
  • Come posso aiutarti?

Credo fortemente che:

  • lo sport insegni a vivere e che l’agonismo sia un valore che aiuti i bambini a diventare adulti, capaci di confrontarsi con le difficoltà e con i successi. Che insegni e a comprendere che la fatica e l’impegno portano a diventare sempre più bravi, ma non necessariamente ad essere un campione.
  • sia illusorio e pericoloso insegnare ad un bambino che “può” tutto; è altrettanto illusorio e pericoloso insegnare ad un ragazzo che non è necessario faticare per ottenere risultati, dato che lui “ha talento”.
  • il compito di un buon genitore e di un buon allenatore sia di permettere ai giovani atleti di non brancolare nel buio nei momenti difficili, ma di essere sostenuti nel raggiungere obiettivi adeguati alla propria crescita.
  • che per fare ciò occorra avere i piedi a terra: si deve avere il senso di realtà, che ci fa confrontare con le risorse che abbiamo e con le difficoltà che ne ostacolano l’espressione, ma si deve anche insegnare a mantenerlo questo senso di realtà.

Come si sviluppa il senso di realtà? Attraverso l’allenamento al confronto.

  • con me stesso
  • con i compagni e avversari
  • con un adulto

Confronto con me stesso: devo considerare i miei progressi, analizzando cioè da dove sono partito a dove sono arrivato (a livello fisico, tecnico e mentale), in un anno, poi in un semestre, quindi in un mese, e in una seduta di allenamento. 

Confronto con i compagni e con gli avversari: perché  sono loro che ci fanno “da specchio”. 

Confronto con un adulto di cui ci si fida: 

  • perché mi dice la verità e lo fa per aiutarmi
  • perché è competente e si prende la responsabilità di insegnarmi cose che sono adeguate al mio fisico e alla mia capacità del momento
  • perché so che tutto ciò che fa lo fa per il mio bene e non mi mette in condizioni di pericolo
  • perché non mi denigra né mi allontana se sbaglio, ma pretende impegno
  • perché sa fermarsi e fermarmi quando esagero e sa sostenermi se mi svaluto per paura
  • perché non mi usa per realizzare i suoi sogni infranti

L’allenamento Integrato

Credo fermamente nell’utilità degli allenamenti integratidove il livello tecnico-tattico si integra a quello fisico, ed entrambi i livelli si integrano a quello relazionale.

È l’unico modo per mettere al centro la persona (atleta) e la sua relazione con i suoi pari (avversari e compagni) e con gli adulti di riferimento (genitori e allenatori in primis), per capire come allenare quel bambino o ragazzo, come migliorare la performance senza mai perdere di vista il suo bene, e ciò che lo aiuta a diventare una persona migliore ed un bravo atleta.

Ma penso che un allenamento integrato non sia per tutti gli allenatori:

– non si può improvvisare: occorre che gli allenatori studino, si formino, si aggiornino con esperti

– non esclude la sofferenza: è solo attraverso la rabbia, la paura e il dispiacere di non riuscire  che si può arrivare alla gioia di vedersi migliorato

– non si accetta per inerzia, è uno stile di vita in cui il rispetto per se stesso e per l’altro sono sullo steso piano e non si può rinunciare all’uno o all’altro

– non lavora per ottenere tutto e subito ma garantisce a tutti il tempo adatto per sviluppare competenze e dare opportunità

– non crea false illusioni ma aiuta a sviluppare una consapevolezza di sé, delle proprie modalità relazionali e del proprio modo di fare performance in campo e nella vita

– non dà per scontato nulla ma pone, ogni volta, davanti lo specchio e chiede di mettersi in discussione con intelligenza, per pensare, pensare insieme e risolvere problemi in campo e fuori

Per questo fare sport è un gioco serio!

Buon divertimento, buon allenamento, e buona vita!

Josè Maria Buceta: Insegnare basket a ragazzi under 14

Sulla time line di Twitter stamattina mi è comparso un tweet di Josè Maria Buceta, spagnolo, psicologo dello sport ed allenatore di basket. L’ho conosciuto molti anni fa ad un convegno della FIBA a Madrid. Allenatore di basket, psicologo, professore universitario, ha collaborato con diversi top club, uno per tutti il Real Madrid, per diverse federazioni ed in diversi sport. 

Sono andato su suo profilo ed ho trovato questo link, che vi propongo, in cui, in un Corso organizzato dalla FIBA, parla di come allenare ragazzi al di sotto dei 14 anni. Il video è in inglese ma molto semplice da comprendere e, come a volte accade, dice cose in apparenza scontate ma fondamentali e spesso dimenticate.

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I libri scritti da Josè Maria Buceta

Ettore Messina in una bella intervista su corriere.it

Ma qual è la via degli Spurs al basket?
«Una filosofia della pazienza, non saltare mai dei passi, cercare giocatori che magari altrove non hanno avuto successo e invece qui si combinano perfettamente. L’attenzione alle persone. Il senso del noi. L’incoraggiamento al dissenso».

Una bella intervista di Alessandro Pasini, inviato a San Antonio (Texas) su www.corriere.it

Nell’arena degli Spurs, in panchina con Ettore Messina mentre lì a pochi passi i campioni Nba si scaldano per il match con gli Houston Rockets. La «leggenda europea», come chiamano Messina negli States, è da quest’anno l’assistente allenatore della leggenda americana, Gregg Popovich. Due partite da solo le ha già guidate, e vinte, a novembre. E un giorno, si dice, tutto questo sarà suo.

«Se ne è parlato molto, però sinceramente credo che la successione sia lontana. Non solo con me, ma in assoluto. Popovich è bello carico e deciso a continuare».
Quelle due partite da capo allenatore – il primo non Usa della storia dell’Nba – sono però l’inizio di qualcos’altro, o no?
«È vero che tutti coloro che sono passati di qui hanno avuto la grande chance, dunque sarei bugiardo se dicessi che non ci penso. Non ora però».
E la paventata fine di uno storico ciclo dopo 5 titoli in 15 anni?
«Duncan potrebbe continuare una stagione, Ginobili anche, la squadra sta giocando bene, ne abbiamo vinte 9 di fila, siamo in entrati in forma playoff (iniziano il 18, ndr), pronti a difendere il titolo. Pensieri negativi non ci sono. Io ho tre anni di contratto: potrebbe essere interessante anche partecipare alla futura fase del rinnovamento. Questo è un club che ha strategie chiare per aprire un altro ciclo».
Nonostante le sue 4 Euroleghe, 10 campionati tra Italia e Russia, l’argento con gli azzurri agli Europei più tutto il resto, lei parla spesso di «venerazione» per Popovich.
«A volte al suo fianco mi sento piccolo».
Perché?
«Per il modo in cui prepara la partita, la cura dei dettagli, gli scenari che disegna, la freddezza di analisi: Pop è lucido persino nell’incazzatura…».
Il coach perfetto.
«Già. Tu lo senti e dici: vabbé, io sono scarso, e pazienza».
Se lo dice Messina, figuriamoci gli altri. Ma qual è la via degli Spurs al basket?
«Una filosofia della pazienza, non saltare mai dei passi, cercare giocatori che magari altrove non hanno avuto successo e invece qui si combinano perfettamente. L’attenzione alle persone. Il senso del noi. L’incoraggiamento al dissenso».
Ovvero?
«Popovich dice spesso: dammi un’opinione diversa, ne discutiamo e troviamo la soluzione. Magari a cena».
Laureato in Economia, lei nei seminari ai manager 15 anni fa insegnava che «la squadra in cui tutti si vogliono bene non esiste, e se esiste perde». La sua filosofia era già Pop prima di incontrare il maestro.
«Era così a Bologna, è così qui. Popovich discute anche con i suoi uomini carismatici come Parker, Ginobili e Duncan. Il confronto è un passaggio decisivo in ogni gruppo di lavoro».
Gli Spurs sono il tiki-taka del basket?
«Un paragone interessante. Anche per noi il passaggio è un fondamentale almeno quanto il tiro: devi sapere come, quando e a chi passare. In quel senso sì, lo siamo».
E poi siete internazionali: otto stranieri in rosa.
«Sì, ma la variabile decisiva è la continuità. Lo straniero qui non passa e va, si radica. Parker è a San Antonio dal 2001, Ginobili dal 2002. Storie lunghe. Come Danilovic a Bologna o D’Antoni a Milano».
Dalla via Emilia al Texas, secoli dopo ha ritrovato Ginobili e Belinelli.
«Curiosa la vita. Manu ha lo stesso entusiasmo di 13 anni fa. Marco lo avevo lasciato bambino e l’ho ritrovato uomo».
Lo Sperone che l’ha impressionata di più?
«Duncan».
Leonard, il migliore delle Finali 2014, potrà essere il suo erede?
«Difficile, personalità molto diverse. Però è un giocatore che ogni giorno ci sta stupendo un po’ di più».
Chi è il suo numero uno assoluto del 2015?
«Harden. Mi inquieta molto per come domina certe partite (non questa però, che i Rockets perderanno di 12 punti, ndr)».
Qual è il plus del sistema sportivo Usa?
«Meritocrazia. Quando sento parlare di quote giocatori comincio a preoccuparmi. Predeterminare così non serve, non solo nello sport».
Jordi Bertomeu, a.d. dell’Eurolega, al Corriere ha detto che il basket italiano è immobile.
«La realtà è quella, l’analisi è complessa. Concordo sulla questione palazzi: ci sono strutture bellissime ovunque in Europa tranne che da noi. Ma lo sport è lo specchio del sistema politico. In Italia c’è da tempo un chiaro problema di leadership. E se manca quella…».
Dieci anni all’estero tra Madrid, Mosca, Los Angeles e San Antonio significano…
«Sul piano lavorativo un’esperienza bellissima. Certo, l’Italia un po’ mi manca. Però penso che ormai il nostro sia diventato un meraviglioso paese dove andare solo in vacanza. E mi spiace».
San Antonio, invece, com’è?
«Mi ricorda i tempi di Treviso: molto verde, gente tranquilla, la scuola per mio figlio a 10 minuti. Città ideale».
Lei tornerebbe in Nazionale?
«Per ora c’è un eccellente allenatore e ciò che conta è conquistare l’Olimpiade. Se poi un giorno le cose dovessero cambiare e me lo chiedessero, ne sarei onorato».
Ma sarebbe possibile una gestione part time, metà in America, metà in azzurro?
«Non mi pongo adesso il problema».
Metta World Peace ha detto che la stima molto.
«Ai Los Angeles Lakers fu lui che quando mi vide la prima volta mi chiese chi avevo allenato, per capire chi fossi. Lui è un grande: un buon ragazzo al quale ogni tanto si chiude la vena».
Metta ha anche detto che gli Spurs possono rivincere il titolo.
«In corsa ci siamo di sicuro».
Metta World Peace e l’Italia: strana coppia?
«Ci serve sicuramente. Gli auguro di conservare serenità e entusiasmo fino alla fine della sua avventura».
A proposito: se pure lei dovesse cambiare nome, che cosa sceglierebbe?
«Gregorio Popovich».

Coach, l’importanza di “andare a bottega” per imparare il mestiere

NCAA: su Sky la finale della ACC, bella vittoria dei Fighting Irish dell’università di Notre Dame, in panchina c’è una mia vecchia conoscenza, Mike Brey. Assistente di Morgan Wootten alla De Matha High School, che visitammo nel 1980 con un gruppo di giovani (Bosa, Binelli, Iacopini). Ritrovai poi Mike nel 1989 a Duke, era l’assistente di Coach K. 

A conferma dell’importanza, per i giovani allenatori, di “andare a bottega” da bravi maestri per imparare il mestiere!

Noi non siamo così grandi ma con Vivi Basket proviamo a dare questa opportunità a tanti giovani allenatori ed i risultati si vedono!

 

Recuperare il ruolo centrale del coach

Trovo stamattina una interessante intervista in cui Valerio Bianchini ripropone il suo mantra sulla necessità che i tecnici riprendano un ruolo centrale all’interno delle società. Il general manager ed il coach devono condurre la squadra agli obiettivi concordati ad inizio anno.

Stagione nera per la Juve, Bianchini sa come risalire: “Competenza societaria e credere nelle proprie scelte”

Il coach ha analizzato la stagione di Caserta ricordando anche simpatici aneddoti degli anni 80

Valerio Bianchini in una sfida del Palamaggiò negli anni 80

E’ stato uno dei più grandi e vincenti allenatori di basket italiani. Primo nella storia della nostra pallacanestro a vincere tre scudetti con tre club diversi. Valerio Bianchini per dodici lunghi anni è stato uno degli avversari storici della Juvecaserta. Alla guida di Roma e Pesaro ha raccolto gioie e dolori contro i bianconeri. Con Caserta ormai retrocessa in Legadue, il ‘vate’ ha accettato di analizzare la stagione poco fortunata dei campani. “Ho visto la Pasta Reggia allenata da Molin – esordisce – poi sono riuscito solo a seguire i risultati. Purtroppo la retrocessione dipende da una serie di motivazioni che vanno ricercate innanzitutto nella società. I nuovi imprenditori che entrano nel basket devono rispettare un principio semplice, quello della competenza. Allenatori e general manager devono essere appoggiati in ogni scelta. Bisogna dare continuità al lavoro iniziato. Hanno cambiato tre tecnici, ma alla fine non sono riusciti a risolvere i problemi”.

Per far capire ulteriormente il concetto svela un retroscena della sua esperienza con il Messaggero Roma: “Fui convocato a Milano nella sede della Montedison per parlare del contratto. C’era il grande Raul Gardini che non usò mezzi termini per farmi capire le sue intenzioni. Io di pallacanestro non capisco molto – mi disse – però con lei farò come faccio con il pilota del mio jet. Lo compro, scelgo dove e quando andare. Quando salgo sull’aereo il padrone diventa il pilota non il proprietario. Un concetto che non fa una grinza. In realtà quando si passa dall’azienda allo sport è una cosa completamente diversa. A differenza delle aziende che fanno i bilanci trimestrali, nello sport si è costretti a farlo ogni domenica e il verdetto del parquet non lascia scampo”.

Il futuro della Juve è più che mai incerto. Ripartire dalla Legadue ma con che obiettivi? Che progetto? “Caserta secondo me ha bisogno di fare chiarezza – prosegue Bianchini – di tener duro anche se le cose vanno male. Cambiare tre allenatori non è servito. Se si fanno certe scelte bisogna continuare con quelle. Occorrerebbe dare fiducia al tecnico e andare avanti con il progetto iniziale. Anche gli allenatori giovani che stanno emergendo non fanno più gavetta. Avrebbero invece bisogno di una guida perché hanno tante energie, ma poca esperienza”.

Bianchini al Palamaggiò quando guidava la nazionale

Tantissime sfide memorabili con Caserta e un’accoglienza particolare. “E’ stato sempre emozionante mettere piede al Palamaggiò: i tifosi sono stati molto corretti nei miei confronti. Era molto suggestivo ascoltare O surdato ‘nnammurato, mi venivano i brividi. Ho anche molti amici con cui mi sento ancora oggi. Inoltre avevo una venerazione per Caserta. Maggiò riuscì a fare qualcosa di straordinario a Pezza delle Noci e grazie a lui la Juve ha scritto pagine stupende del propria storia. Ricordo grandi sfide ai tempi di Tanjevic e Marcelletti. Una però in particolare, il playoff dell’85. Allenavo Pesaro e durante la stagione cambiai i due stranieri Cook e Daye. Si avvicinò un signore e mi disse: Bianchini hai cambiato più neri tu che Moana Pozzi. Alla fine vincemmo e andammo in finale, ma fu un pre gara davvero memorabile”.

Adesso bisognerà capire in che tempi Caserta tornerà in Lega A: “Riprendersi la massima serie non sarà semplicissimo – conclude Bianchini. E’ un momento di grande transizione per il basket italiano. Si va verso l’idea di bloccare promozioni e retrocessioni creando una vera e propria lega professionistica. Intanto devono avere le idee chiare su obiettivi, sugli uomini su cui puntare, il budget da investire. Poi nello sport si vince e si perde, ma non bisogna mai mollare”.

Giocare a zona…

Argomento molto controverso, soprattutto quando a giocare a zona sono i piccolissimi, in Italia a qualunque livello la si faccia è diventato sinonimo di cattiva gestione!

Vi confesso che io non condivido e mi spiego: ho allenato e visto crescere tanti giocatori in Italia ed a livello internazionale in questi oltre 40 anni di basket, e non penso che sia quella la strada da seguire.

Le nostre squadre di piccoli non giocano a zona ma credo anche che ognuno sia libero di fare ciò che vuole nella sua palestra, alla fine sarà il campo a dare un giudizio.

Negli USA, dove il basket lo hanno inventato, nessuno si preoccupa se dalle  elementari all’NCAA qualcuno utilizza la zona (anche se lì c’è una differenza sostanziale, cioè il tempo per andare a canestro è di 45 secondi; in alcuni Stati non c’è un limite, ma sicuramente non ci sono i 24 secondi come in Italia).Anche l’NBA l’ha liberalizzata nel 2002.

In Italia, un paese in cui le leggi sono fatte per fermare i furbi e non per risolvere i problemi, la discussione è sempre aperta. Vi confesso che anch’io prima ero contrario, ma con il passare degli anni (a quasi 61 anni sono maturato…) penso che non sia certo quello il problema.

Senza fare troppe filosofie, come diceva il mio maestro Mirko Novosel, credo che attaccare la difesa a zona sia una opportunità per imparare più facilmente a passarsi la palla, ad occupare gli spazi liberi, ad utilizzare i fondamentali con e senza palla, il rimbalzo d’attacco innanzitutto!

D’altra parte, a livello evoluto, è una buona strategia giocare a zona contro una squadra egoista, che non ama passarsi la palla e che cerca di giocare sempre in penetrazione senza utilizzare il gioco interno. Un paio di settimane fa, un nostro ex allenatore, ha vinto un’importante partita, in un campionato nazionale, proprio utilizzando questa strategia per rompere la formula di gioco della squadra avversaria.

Nel nostro piccolo, la settimana scorsa, allenando insieme ad Antonio Garofalo, un gruppo Under 13 Elite, sapevamo di dover incontrare una squadra che utilizza zone di vario tipo. Ci siamo chiesti: cosa fare? Sicuramente, ci sono tante cose da insegnare, per cui non si ha il tempo per spiegare cosa sia una zona e come attaccarla. Ci siamo inventati un esercizio di riscaldamento: giocare 3 contro zero, 4 contro zero e 5 contro zero per cercare gli spazi vuoti contro… 5 sedie!  D’altra parte a questa età la zona non è  certo molto più mobile… L’obiettivo era passarsi la palla e muoversi occupando le zone libere dalle sedie, fuori dai tre punti e nell’area dei tre secondi. Abbiamo dedicato grande attenzione all’uso dei fondamentali con e senza palla, è stato un buon esercizio di collaborazione tecnica e tattica.

Domenica scorsa, dopo un primo tempo equilibrato, all’inizio del terzo quarto abbiamo dovuto affrontare sia la zona che una difesa super contenitiva. I nostri avversari dopo la vittoria di 35 punti nella gara di andata non si aspettavano queste difficoltà. Ma i nostri ragazzi hanno reagito bene: con due tagli, in post basso e in post alto, abbiamo saputo trovare sempre buoni tiri; al loro lungo che stazionava in area per difendere la zona ha risposto un nostro giocatore che ha saputo trovare gli spazi lasciati liberi (con un’ottima percentuale, 3 su 4); abbiamo sempre cercato molto il contropiede. Alla fine abbiamo vinto di tre punti, grande gioia (ed un divario di 38 punti tra andata e ritorno).

Sia chiaro, non penso che abbiamo risolto tutti i nostri problemi, ma per i ragazzi è stata una bella soddisfazione. Il loro miglioramento passa attraverso il lavoro quotidiano in palestra, svolto sui fondamentali tecnici e tattici, dal guardare, parlare, mantenere viva l’attenzione per tutto il tempo dell’allenamento.

Da un paio di mesi i ragazzi quando entrano in palestra non fanno tiri strani per prepararsi all’allenamento, perché hanno tre esercizi di tecnica di tiro: glielo stiamo insegnando e lentamente iniziamo a vedere i frutti di questo lavoro.

Il futuro ci dirà dove potremo arrivare, ma una cosa è certa, è inutile lamentarsi della zona e di chi la utilizza: pensiamo ad insegnare a giocare ad i nostri ragazzi, il tempo ci darà ragione!

Campionato Under 13: quale pallone usare?

Da qualche mese seguo direttamente un gruppo Under 13 e mi sono chiesto: perché continuare ad usare i palloni n* 5? È il primo campionato FIP, i palloni mini basket di gomma sono delle palle magiche, tutti dai più piccoli ai più grandi si trovano spesso in difficoltà. Quindi perché non usare il pallone n* 6, sarebbe un passaggio graduale verso il n* 7, oltretutto potendo usare anche palloni di qualità migliore! Ne ho parlato con diversi amici e concordavano con me, cosa ne pensate?

Lo Squalo se ne è andato

A distanza di pochi giorni mi trovo di nuovo a ricordare un grande Coach che ci ha lasciato: Jerry Tarkanian “The Shark”.
Lo incontrai a Los Angeles al Camp di Pete Newell, era già leggendario, ma anche lui di una semplicità imbarazzante per un giovane coach come me. Quando scoprì che ero italiano mi cominciò a parlare del figlio, Danny, playmaker della sua squadra. L’anno successivo mi ricontattò attraverso Coach Newell per vedere se ci fosse un’opportunità. Ma il figlio lasciò presto il basket per dedicarsi al lavoro.
Lo Squalo era molto diverso da Dean Smith, è diventato leggendario per la sua carriera a UNLV ( University of Nevada Las Vegas) dove ha ottenuto straordinari successi reclutando atleti che difficilmente sarebbero potuti diventare giocatori NBA.
Con un record di 729 vittorie nell’NCAA, è settimo in percentuale di vittorie, davanti a mostri sacri come Smith e Krzyzewski, ma la sua partita mai terminata è stata quella combattuta con l’NCAA. Le cause e le sospensioni legate alle irregolarità di reclutamento lo hanno accompagnato per anni.
Tarkanian è stato un ottimo coach, molto migliore di ciò che si è detto, ha iniziato per primo ad usare sistematicamente il tiro da tre punti, il suo stile di gioco “Run and Gun” (corri e spara) caratterizzato dal gran numero di possessi, unito alla difesa a tutto campo, ha fatto scuola.
Per quattro volte è arrivato alle Final Four, sempre contro grandi College: lui con il piccolo UNLV, ha perso le prime due volte con Dean Smith, UNC, e Bobby Knight, Indiana University; ha vinto nel 1990 con Coach Krzyzewski, Duke University, concludendo nella stagione successiva, 1990-91, con una sconfitta in semifinale proprio con Duke. L’anno successivo fu travolto da uno scandalo provocato da tre suoi giocatori che lo portarono a lasciare UNLV.
Ma per raggiungere le 700 vittorie riprese ad allenare a Fresno State, la sua Alma Mater. Altro record: in tutta la sua carriera solo due volte le sue squadre hanno mancato il traguardo delle 20 vittorie.
Significative le parole di Coach K dopo la vittoria a sorpresa del 1991:
“Come coach noi lo apprezziamo, la sua squadra è una gioia da vedere, anche se ci devi giocare contro non puoi non apprezzarla. Insegna la difesa press tutto campo come nessun altro ha mai fatto.”
Tarkanian aveva una incredibile abilità di reclutare stelle e trasformarle in una squadra con una mentalità che ben si comprende dalle sue parole:
“Ogni cosa deve essere fatta alla massima velocità ed intensità. Molti allenatori desiderano che i loro giocatori siano rilassati prima delle partite. Io non voglio mai che accada. Io voglio che le loro mani sudino, le loro gambe tremino, che gli occhi siano spiritati. Io voglio che agiscano come se si preparassero alla guerra.”

come sempre ESPN traccia un magnifico profilo, da leggere!

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Hi Roberto, I’m Coach Smith…

Estate 1997, allenavo a Fabriano, eravamo alla ricerca di un playmaker. Un amico olandese mi propose il nome di Jeff McInnis, le informazioni erano contrastanti: un giocatore di classe superiore ma di difficile gestione.
Decisi di telefonare a Coach Dean Smith che lo aveva allenato a North Carolina, rispose la sua segretaria, si ricordò della mia visita nel 1998 ma Coach Smith non era in ufficio, avrebbe riferito della mia telefonata. Dopo un paio d’ore squillò il cellulare e… “Hi Roberto, I’m Coach Smith...” Stavo svenendo! Mi stava chiamando direttamente lui, un mito, si ricordava perfettamente di quella lontana visita, mi diede informazioni molto chiare (lasciammo perdere, non era proprio il caso) nel chiudere la telefonata mi chiese di salutare il suo grande amico Sandro Gamba.
Oggi se ne è andato, ad 83 anni, in silenzio circondato dall’affetto della sua famiglia e delle centinaia di giocatori e coach che devono a lui tanto se non tutto, insegnamenti di vita oltre che di sport.
IMG_1012In quei giorni passati a UNC fu di una disponibilità incredibile, ci aveva assegnato un suo assistente per spiegare tutto ciò che veniva fatto in campo, ci accompagnava nella loro videoteca, ci dava i piani di lavoro.
Negli allenamenti eravamo posizionati nel primo anello, non dovevamo sentire le chiamate delle difese e dei giochi, erano segrete, ma c’era chi stava peggio, sistemato nell’ultimo anello dell’impianto, da lì era difficile anche vedere… La posizione dipendeva dal livello di importanza degli ospiti.
In campo era uno spettacolo, un’organizzazione incredibile, tra assistenti e manager, era tutto preordinato. Una per tutte: un manager doveva essere sempre nel suo cono visivo per alzare un braccio quando finiva il tempo dedicato ad un esercizio!
Ci portò a pranzo, ero con Giorgio Montano e sua moglie Lulù, ci sembrava di essere in un film: gentile, disponibile, allegro: come tutti i Grandi, di una semplicità imbarazzante!
Lo rividi nel 1993, quando vinse, inaspettatamente, le Final Four a New Orleans, grazie alla incredibile stupidaggine di Chris Webber. In quell’occasione lo incontrai insieme a Pete Newell, due incommensurabili maestri!
Tante delle mie vittorie sono legate alla sua Point Zone ed alla variante press a metà campo che Ettore Messina mi insegnò, Ettore era un suo allievo prediletto.
Oggi è scomparso un uomo che ha scritto pagine indimenticabili di basket, allenando giocatori straordinari, Michael Jordan per tutti, lascia un vuoto incredibile, paragonabile a quello lasciato da John Wooden, ma resterà vivo per sempre, nei ricordi e nell’esempio dei suoi giocatori e dei suoi assistenti, perchè negli USA. la memoria dei padri è un fondamento della cultura. In questo noi italiani dovremmo imparare tanto!

Vi inserisco il link dell’articolo di ESPN con l’intervista a Dick Vitale, vale veramente la pena, leggere ed ascoltare!
intervista a Dick Vitale su ESPN

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Ecco perché lo sport è pericoloso (da un testo di Mauro Berruto)

Si intitola “Ecco perché la pallavolo è lo sport più pericoloso che esista” un post pubblicato su eticamente.net (in fondo c’è il link diretto all’articolo) e ho trovato stimolante e utile ciò che dice Mauro Berruto, l’allenatore della nazionale italiana di pallavolo maschile (è pubblicato in ‘Sogni di gloria. Genitori, figli e tutti gli sport del momento’, per la collana “Save the parents”, Scuola Holden, edito da Feltrinelli). Il ct azzurro fa riflettere con una metafora sull’individualismo portato ormai all’esasperazione, il “vincere a tutti i costi” che conta più della condivisione e della partecipazione. Perciò lo sport (in particolare quello di squadra, come la pallavolo o tanti altri) è pericoloso, perché può far nascere unione, condivisione, affiatamento.

«Mi rivolgo a voi in quanto esseri adulti, razionali e con la testa ben piantata sulle spalle – scrive Mauro Berrutocommissario tecnico della nazionale italiana di pallavolo maschile – preferisco essere proprio io a dirvelo, con cognizione di causa e prima che lo scopriate sulla vostra pelle: la pallavolo è lo sport più pericoloso che esista. Vi hanno ingannato per anni con la storia della rete, della mancanza di contatto fisico, del fair play.

Ci siamo cascati tutti, io per primo, il rischio è molto più profondo subdolo. Prima di tutto questa cosa del passaggio: in un mondo dove il campione è colui che risolve le partite da solo, la pallavolo, cosa si inventa? Se uno ferma la palla o cerca di controllarla toccandola due volte consecutivamente, l’arbitro fischia il fallo e gli avversari fanno il punto.

Diabolico ed antistorico: il passaggio come gesto obbligatorio per regolamento in un mondo che insegna a tenersi strette le proprie cose, i propri privilegi, i propri sogni, i propri obiettivi. (…) Accidenti, ci mettiamo tanto ad insegnare ai nostri figli di girare al largo da certa gentaglia, a cibarsi di individualismo, a tenersi distanti da quelli un po’ troppo diversi e poi li vediamo tutti ammassati in pochi metri quadrati, a dover muoversi in maniera dannatamente sincronica, rispettando ruoli precisi, addirittura (orrore) scambiandosi un “cinque” in continuazione.

Non c’è nessuno che può schiacciare se non c’è un altro che alzanessuno che può alzare se non c’è un altro che ha ricevuto la battuta avversaria.

Una fastidiosa interdipendenza che tanto è fondamentale per lo sviluppo del gioco che rappresenta una perfetta antitesi del concetto con cui noi siamo cresciuti e che si fondava sulla legge: “La palla è mia e qui non gioca più nessuno”. (…) Insomma questa pallavolo dove la squadra conta cento volte più del singolo, dove i propri sogni individuali non possono essere realizzati se non attraverso la squadra, dove sei chiamato a rimettere in gioco sempre ed inevitabilmente quello che hai fatto, diciamocelo chiaramenteè uno sport da sovversivi!
Potrebbe far crescere migliaia di ragazzi e ragazze che credono nella forza e nella bellezza della squadra, del collettivo e della comunità. Non vorrete correre questo rischio, vero? Anche perché, vi avviso, se deciderete di farlo, non tornerete più indietro».

Mauro Berruto
Commissario Tecnico della nazionale maschile di pallavolo

(Testo pubblicato sul volume ‘Sogni di gloria. Genitori, figli e tutti gli sport del momento’ della collana ‘Save the parents’ di Scuola Holden edito da Feltrinelli)

http://www.eticamente.net/38296/pallavolo-sport-pericoloso-ecco-perche.html

e qui il link della collana Feltrinelli:

http://www.scuolaholden.it/produzioni-holden/progetti-editoriali/save-the-parents/