Una interessante intervista a Derrick de Kerckhove da
http://www.lindro.it/0-cultura/2015-01-19/164705-derrick-de-kerckhove-lapostolo-di-mc-luhan
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Un classico, Indiana Move
gennaio 20, 2015 in basket, Tecnica
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Da una giornata di sport un flashback tra passato, presente e futuro
Gli Under 17 colgono una bella vittoria con l’imbattuta Caserta, è una vittoria del nostro staff e della brillante collaborazione tra Vivi Basket, Flegrea e Casalnuovo. Alla partita è presente Renato Pasquali, General Manager del Torino, mia vecchia conoscenza, tante volte ho allenato suoi giocatori, avevamo spesso diverse idee, ma alla fine si collaborava proficuamente.
Da questo incontro partono una serie di flashback. Gli Under 17 sono allenati da Alfredo Lamberti, nel 1998 era il giovane allenatore della Scuola Basket Napoli, la società costituita con un gruppo di amici per recuperare il primo dei tanti fallimenti del basket napoletano. Oggi è uno dei più bravi coach napoletani.
A fine partita viene a salutarmi Francesco Cavaliere, una creatura di Vivi Basket, responsabile del settore giovanile della Scandone Avellino.
Nel pomeriggio mi aveva chiamato Aldo Russo, un altra delle nostre creature, allenatore del Martina Franca in serie B.
Penso a Francesco Guida, Alessandro Rossi, Francesco Dragonetto e Mario Conte che allenano con entusiasmo e successo, in giro per l’Italia, tutti hanno mosso i primi passi con noi.
Con gli esordienti giocano oggi i figli di Massimo Sbaragli, gloria del basket napoletano, che allenavo 37 anni fa, con loro il pronipote di Enzo Caserta, dirigente storico della Partenope, e tanti altri bambini cresciuti con noi in questi anni.
Scorrono le immagini di 41 anni di basket da allenatore e formatore, ruoli che vivo ancora oggi con entusiasmo, ma… rimpianti? No, un po’ di tristezza.
Perché? Oggi abbiamo vinto bene con Caserta, un gigante del basket giovanile, e intanto la prossima settimana arriverà l’ennesima convocazione in Nazionale di un nostro giocatore. Ma noi, come sempre, lavoriamo nell’indifferenza generale. Per la seconda volta in un mese ci sono state tolte le palestre che sono state utilizzate per fare dei concorsi. E non finisce qui, perché la responsabile dell’impianto si lamenta perché gli operai non vogliono venire al Polifunzionale. Ovvero si dovrebbe chiudere, non c’è personale a sufficienza, e sapete perché? Nessuno vuole venire a lavorare in questo impianto. Il motivo? “Si lavora troppo”!
Per questo sono triste, noi proviamo a fare di tutto per lo sport, dai bimbi del minibasket, ai ragazzi dell’agonistica, alla formazione degli istruttori, ma pochi ci aiutano. Diamo fastidio, e per alcuni sarebbe meglio che smettessimo: vi sembra giusto?
Un movimento reso famoso da Manu Ginobili, ma che i vecchi giocatori ricordano insegnato dai grandi coach del passato…
gennaio 19, 2015 in basket, Tecnica
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Dal nostro sito vivibasket.it, una interessante riflessione
5. Danno ascolto a coloro i quali riempiono il loro ego invece che a quelli che dicono loro la verità.4.Si aspettano che sia tutto facile e alla loro portata e non sono disposti al sacrificio per imparare. Le persone svogliate falliscono.
3.Sono così distratti da non concentrarsi su quello che è necessario per avere successo.
2.Non credono sufficientemente in se stessi. Sono insicuri, stressati, spaventati, dubbiosi, e non ci credono mai fino in fondo.
1.Semplicemente non ci arrivano! Non comprendono quanto deciso impegno e persistenza siano necessari per farcela.
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Ciò che scrive Franco Bolelli mi piace molto…
– 61: L’amore nasce da un colpo di fulmine. Proprio come la vita è nata dal Big Bang. Proprio come nascono la conoscenza luminosa, le rivelazioni che improvvisamente ci spalancano un nuovo orizzonte. Ogni volta che un’idea, una persona, un’esperienza ci colpisce con questa prepotente istantaneità, noi passiamo dal mondo dei concetti statici a quello dinamico dove istantaneo ed infinito si incontrano. Si tratta proprio di un evento fisico perché quando gli schemi rigidi si dissolvono, lì l’energia è più libera di correre. Perché in uno sguardo – poi in un bacio, e poi in un altro,e in tutto quello che viene dopo – ci scambiamo miriadi di quintessenziali informazioni genetiche. Naturalmente quell’impulso folgorante dovremo poi verificarlo, allenarlo, approfondirlo: ma intanto attraverso il nostro intero organismo – pelle, mente, occhi, sensi, sistema nervoso – qualcosa in noi, nella nostra relazione con il mondo e le cose, è scattato, si è acceso. Chi ha mai detto che tenersi per mano, accarezzarla, baciarla, toccarla, mille volte al giorno, debba essere prerogativa del colpo di fulmine, dell’esplosione iniziale, e poi normalizzarsi, assestarsi su un’attitudine più equilibrata? Ci sono gesti e azioni – quelli caldi delle nostre passioni sentimentali – che proprio per la loro natura vitale e rivitalizzante dovrebbero seguire un ritmo biologico: la carezza o il bacio delle nove e venti non sono gli stessi che ha i fatto alle nove e quindici, non sono una ripetizione, sono nuovi ogni volta. Puoi avere sedici anni oppure sessantuno e la tua relazione può essere appena sbocciata oppure essere ormai aldilà del tempo, ma guai se po slancio non prevale sull’equilibrio. Sarà anche vero che in medium stat virtus, ma appunto, in mezzo ci sta giusto la virtù, non tutta la potenza vitale che è li pronta nei nostri corpi e nelle nostre mani
Franco Bolelli
In questo video di una sua straordinaria prestazione, 51 punti, Kiki Vandeweghe, ala di 201, stella dei Denver Nuggets, fa un vero e proprio clinic sui fondamentali di attacco. Uso del piede perno, tecnica di tiro, partenze in palleggio, lettura della difesa, gioco senza palla, tecnica del passaggio. Realizza tanti punti con una semplicità disarmante.
Ho avuto la fortuna di conoscerlo e vederlo allenare da Pete Newell, con l’umiltà e l’impegno di un ragazzino lavorava per migliorare l’uso dei suoi fondamentali pur essendo già una stella dell’NBA.
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Un collage di foto della mia terrazza, dei miei piatti e dei miei Pellicani
gennaio 17, 2015 in Food & Wine
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Ricordare Cesare Rubini è per me ripercorrere i momenti più belli della mia carriera come allenatore.
Rubini era un mio mito fin da piccolo quando iniziai a giocare a basket, mi allenavo da solo in giardino giocando con un canestro ed impersonando i giocatori delle due squadre. Il Simmenthal era la mia squadra preferita, giocavano tutti i grandi, da Riminucci e Pieri a Masini, Vittori, ma anche Papetti e Gaggiotti, gli ultimi della panchina.
Ricordo le prime partite in tv con la voce di Aldo Giordani, la finale di Coppa Campioni con il mitico Bill Bradley.
Lo conobbi tanti anni dopo, ero un giovane allenatore di 26 anni, ci convocò a Rieti: ero con Gianni Piccin, in una stanza scura di un albergo, ci comunicò che avremmo fatto da assistenti ai Centri di Addestramento Sud, a Montecatini, e Nord a Gorizia, poche parole, con il suo vocione, la gioia che sprizzava da tutte le parti.
Lo incrociavo nelle varie occasioni in cui collaboravo con il Comitato Allenatori nei clinic ma poche parole, avevo un grande rispetto ed ero un po’ intimorito da lui.
Nel 1985 il secondo incontro a Firenze, era arrabbiato perché durante un suo intervento al clinic qualcuno aveva osato fischiare, chi c’era ben ricorda come fulminò tutti con una sonora imprecazione che zittì la platea di oltre 800 allenatori che restarono in silenzio a seguire fino in fondo la sua relazione. Si rivolse a me nell’atrio del palazzo in modo secco: «di Lorenzo, Bianchini ha detto che ti vuole come assistente per il viaggio in Cina, ringrazia Puglisi! Io non ti conosco, vedremo…! Ma ricordati che in nazionale non si parla, nessuno deve sapere cosa noi diciamo!». Io non credevo alle mie orecchie. Un ricordo dolcissimo per me: fu la prima volta che mio padre, dopo 19 anni di basket, mi abbracciò e mi fece i complimenti!
Fu un’esperienza stupenda da Hong Kong a Pechino, a Shangai, a Nanchino per poi tornare a Pechino, mille ricordi, me ne tornano in mente due in particolare. Il primo a Shangai in cui evitai a Luisella, sua moglie, di essere travolta da una bicicletta e lei mi elesse suo salvatore! Lo chiamava “dromi” per la sua andatura che, diceva, gli ricordava un dromedario.
Il secondo fu alla fine dell’ultima partita vinta con la Cina in un palazzetto da 20mila persone stracolmo. Preparammo la partita con una zona adattata che Valerio Bianchini fece spiegare a me negli spogliatoi. Quando tornammo felici per la vittoria, Rubini mi chiamò e mi disse: «di Lorenzo non pensavo fossi così bravo, complimenti!». Mi squagliai!
Quell’inverno dopo poche partite mi affidarono la squadra dopo l’esonero di Pentassuglia, e incontrai Rubini in aeroporto, a Fiumicino, lui arrivava con un aereo e io partivo, lasciò il suo gruppo attraversò la pista e mi venne a dare l’in bocca al lupo, con gli addetti alla pista che lo rincorrevano.
Lo ricordo al nostro primo incontro a Zagabria, nel 1989, quando fui assunto al Settore Squadre Nazionali, ormai con me era quasi affettuoso, in un modo molto simile a quello di mio padre: burbero, ma sempre pronto a dire la parola giusta.
Iniziai ad allenare insieme a Mario Blasone, una scuola dura ma formidabile e ad ogni occasione Rubini non perdeva occasione per ripeterci che a lui non interessava vincere, ma voleva che creassimo giocatori per la nazionale A.
Passammo molti giorni a Fontane Bianche, vicino a Siracusa, per la preparazione al primo Mundialito Under 20. L’albergo era sulla spiaggia, lontano da qualunque centro abitato, per cui si decise di prendere un’auto a noleggio. Fummo inviati a ritirarla, ma con gran sorpresa non risultava niente, Rubini cominciò ad arrabbiarsi e poi alla fine scoprimmo che la macchina era stata prenotata sì, ma a… Syracuse, nello stato di New York, e tutto finì in una grande risata. Un altro episodio divertente (ma mica tanto) fu quando osai passargli il sale! «Ma che napoletano sei, – disse – non si fa mai così, mettilo sul tavolo!», e io che volevo scomparire.
Quell’estate, il giorno del mio esordio da capo allenatore a Bormio, dovetti lasciare la squadra, perché morì mia mamma e lui come sempre mi chiamò con grande affetto.
Ero l’assistente della nazionale Cadetti, ma lui volle che preparassi una relazione su tutti i giocatori segnalando quelli che, a mio parere, erano da nazionale A. Ricordo che segnalai Ale Frosini, che Mario Blasone aveva scovato a Castelnuovo Berardenga, negli anni lui ricordò questa cosa.
Iniziammo le frequentazioni nei raduni della nazionale e nelle riunioni, sempre contenute ma poche parole bastavano. L’estate del 1990 fu quella del titolo Juniores come assistente di Blasone: fu una grande esperienza per me, molto pesante perché Mario era molto esigente, al ritorno mi invitò a Positano, al Villa Murat, dove lui era solito passare una settimana di riposo settembrino, fu una esperienza bellissima, veramente un padre, mi ascoltò, commentò poco, ma cambiarono molte cose tra di noi.
L’anno successivo fui scelto come assistente di Sandro Gamba per gli Europei di Roma, una manifestazione straordinaria. Arrivammo in finale perdendo contro l’ultima nazionale della Jugoslavia unita, davanti a 15mila spettatori. Eravamo in un bellissimo hotel alle spalle del Pantheon con una macchina solo per noi con cui andavamo ad allenarci al Palaeur. Sandro e Tonino Zorzi mi chiamavano sempre “Pulicano”, ed un giorno l’autista che ci accompagnava non vedendomi chiese a Rubini: «Ma oggi il signor Pulicano non viene con noi?», seguirono una grandissima risata e sfottò per vari giorni.
Alla fine fu un trionfo e fu lui che si adoperò per trovare la medaglia per me ed un altro paio di persone che non l’avevano ricevuta.
Fu il primo a cui io telefonai quell’estate dopo la grande vittoria dei ragazzi del 1974 ai Campionati Europei Cadetti, ma come sempre lui mi riportò con i piedi a terra: alla riunione post estate mi richiamò con forza perché non avevo messo davanti a tutti la Federazione ed i suoi componenti che avevano permesso con il loro lavoro di arrivare a quel successo.
In quella riunione si discusse se far continuare il programma con i ragazzi del 1975, che per una scelta della FIBA, erano stati esclusi dagli Europei. Qualcuno suggerìdi risparmiare, ma Rubini mi chiese con il suo vocione: «di Lorenzo ma questi giocatori possono diventare buoni per la nazionale?». Alla mia risposta affermativa confermò il programma. Da quel gruppo sono arrivati, tra gli altri, Galanda, Marconato, Scarone, Damiao e altri. Nel 1993 mi chiamarono con la nazionale Militare che veniva da due anni di mancati successi, c’era il problema Moretti, che avrebbe dovuto allenarsi e giocare con la Nazionale A, io avrei dovuto vincere ma tenere fuori Paolo. Era facile perché la squadra era comunque fortissima, l’unico problema era il Colonnello Magrini che ad ogni costo avrebbe voluto Moretti. Alla fine ci riuscimmo e come sempre lui fu tra i primi a complimentarsi.
Mi piaceva sempre fargli gli auguri per il suo compleanno, anche se lui non gradiva, perché tra l’altro coincideva con il giorno dei morti, ma alla fine sapevo che era contento.
Uno degli ultimi ricordi che ho di lui è legato ad una riunione del CNA a Bologna dove venne in quanto Presidente Onorario. Volle che mi sedessi vicino a lui, era amareggiato per l’incredibile ostracismo che veniva fatto ad Ettore e per la mediocrità delle questioni proposte. Anche quella volta da lui poche parole secche che arrivarono al centro della questione, ma purtroppo alcuni dei presenti erano fatti d’acqua e fecero finta di niente.
Fu l’ultima volta che lo vidi, ci parlai a telefono alcune volte, gli ultimi anni parlavo solo con Luisella, l’adorata moglie, con cui avevo un rapporto speciale dopo il viaggio in Cina, e lei mi raccontava, accoratamente, di lui, era uno strazio per me, che con il passare degli anni sono un po’ diventato come lui, commuovendomi alle lacrime quando sento una emozione forte.
L’ultimo saluto fu, al suo funerale, non potevo mancare, arrivammo io e Dante De Benedetti, in quella enorme chiesa piena di quelli che lo avevano amato e rispettato. Fu un giorno difficile, ma uno come Rubini resta dentro.
Con il suo libro rivivo la sua storia e vorrei far conoscere ai ragazzi d’oggi quest’uomo straordinario nella sua grandezza, ma soprattutto nella concretezza di tutto ciò che ha fatto, certo che lui mi guardi da lassù.
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Le braciolette sono un piatto tradizionale della mia famiglia. Jeanne Carola ha scritto nel suo libro “La cucina napoletana” che quando si assumeva un Monsù (appellativo storpiato dal dialetto che deriva dalla parola Monsieur, usato per designare i cuochi francesi a servizio nelle famiglie aristocratiche, durante il Regno dei Borboni, nel XIX secolo) lo si metteva alla prova proprio con le braciolette e se il piatto non era fatto a dovere lo si licenziava subito.
A riportare questa storia era Ettorino Ricciardi, cugino di mia madre, ed alla sua ricetta mi ispiro.
La bracioletta è una polpetta senza uovo e cotta al forno, che deve la sua bontà alla qualità dell’impasto. Rispetto alla ricetta classica ci sono delle piccole, personali, variazioni.
Per 8 persone:
800 grammi di polpa di manzo Prezzemolo
600 grammi di pane cafone raffermo Burro
100 grammi di prosciutto crudo a fette sottili Crostini di pane raffermo
100 grammi di salame napoletano Sale
150 grammi di parmigiano
Preparo l’impasto di carne macinando insieme la polpa di manzo con il salame ed il prosciutto.
Spugno il pane con acqua e brodo, lo strizzo accuratamente e ne prendo un peso pari alla metà dell’impasto di carne. È importante utilizzare il palatone o il pane cafone, un pane rustico e non troppo raffinato.
Unisco la carne ed il pane, il sale, un po’ di burro, il parmigiano ed il prezzemolo, lavoro a mano l’impasto fino a che non diventa un unico pezzo omogeneo.
Preparo dei crostini di pane di pane raffermo (a cui ho levato tutta la crosta), spessi circa mezzo centimetro e lunghi quanto le braciolette che vado a preparare.
Divido l’impasto in 30/35 parti e a ciascuna do la forma come di una corcchetta, più o meno delle dimensioni di sei-sette centimetri.
Preparo gli spiedini alternando crostini e braciolette, 4/5 per spiedino (come nella foto.
Per la cottura ripongo gli spiedini in più teglie imburrate, metto anche dei tocchetti di burro sui crostini e sulle braciolette (Jeanne Carola suggerisce di spennellarli con del burro sciolto in acqua). L’obiettivo è che crostini e braciolette restino bionde senza bruciare durante la cottura in forno.
Per la cottura uso il forno a 200° per circa 30’, io preferisco una cottura iniziale coperta con alluminio per poi finirla a temperatura più forte per imbiondirle.
Questa estate ho avuto occasione di cucinarle in un forno a legna ed il risultato è stato straordinario!
Per me le braciolette vanno lasciate riposare e mangiate non troppo calde, sono ottime anche il giorno successivo ma ahimè difficilmente ne restano!
Pubblicato in Food & Wine, I piatti del Pulicano
Contrassegnato da tag "La cucina napoletana" libro di Jeanne Carola, braciolette, Cucina del Pulicano, di Lorenzo, Ettore Ricciardi, Jeanne Carola, Monsù, polpette