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Indimenticabile, Cesare Rubini, un guerriero dello sport

Ricordare Cesare Rubini è per me ripercorrere i momenti più belli della mia carriera come allenatore.
imageRubini era un mio mito fin da piccolo quando iniziai a giocare a basket, mi allenavo da solo in giardino giocando con un canestro ed impersonando i giocatori delle due squadre. Il Simmenthal era la mia squadra preferita, giocavano tutti i grandi, da Riminucci e Pieri a Masini, Vittori, ma anche Papetti e Gaggiotti, gli ultimi della panchina.
Ricordo le prime partite in tv con la voce di Aldo Giordani, la finale di Coppa Campioni con il mitico Bill Bradley.
Lo conobbi tanti anni dopo, ero un giovane allenatore di 26 anni, ci convocò a Rieti: ero con Gianni Piccin, in una stanza scura di un albergo, ci comunicò che avremmo fatto da assistenti ai Centri di Addestramento Sud, a Montecatini, e Nord a Gorizia, poche parole, con il suo vocione, la gioia che sprizzava da tutte le parti.
Lo incrociavo nelle varie occasioni in cui collaboravo con il Comitato Allenatori nei clinic ma poche parole, avevo un grande rispetto ed ero un po’ intimorito da lui.
Nel 1985 il secondo incontro a Firenze, era arrabbiato perché durante un suo intervento al clinic qualcuno aveva osato fischiare, chi c’era ben ricorda come fulminò tutti con una sonora imprecazione che zittì la platea di oltre 800 allenatori che restarono in silenzio a seguire fino in fondo la sua relazione. Si rivolse a me nell’atrio del palazzo in modo secco: «di Lorenzo, Bianchini ha detto che ti vuole come assistente per il viaggio in Cina, ringrazia Puglisi! Io non ti conosco, vedremo…! Ma ricordati che in nazionale non si parla, nessuno deve sapere cosa noi diciamo!». Io non credevo alle mie orecchie. Un ricordo dolcissimo per me: fu la prima volta che mio padre, dopo 19 anni di basket, mi abbracciò e mi fece i complimenti!
Rubini in CinaFu un’esperienza stupenda da Hong Kong a Pechino, a Shangai, a Nanchino per poi tornare a Pechino, mille ricordi, me ne tornano in mente due in particolare. Il primo a Shangai in cui evitai a Luisella, sua moglie, di essere travolta da una bicicletta e lei mi elesse suo salvatore! Lo chiamava “dromi” per la sua andatura che, diceva, gli ricordava un dromedario.
Il secondo fu alla fine dell’ultima partita vinta con la Cina in un palazzetto da 20mila persone stracolmo. Preparammo la partita con una zona adattata che Valerio Bianchini fece spiegare a me negli spogliatoi. Quando tornammo felici per la vittoria, Rubini mi chiamò e mi disse: «di Lorenzo non pensavo fossi così bravo, complimenti!». Mi squagliai!
Quell’inverno dopo poche partite mi affidarono la squadra dopo l’esonero di Pentassuglia, e incontrai Rubini in aeroporto, a Fiumicino, lui arrivava con un aereo e io partivo, lasciò il suo gruppo attraversò la pista e mi venne a dare l’in bocca al lupo, con gli addetti alla pista che lo rincorrevano.
Lo ricordo al nostro primo incontro a Zagabria, nel 1989, quando fui assunto al Settore Squadre Nazionali, ormai con me era quasi affettuoso, in un modo molto simile a quello di mio padre: burbero, ma sempre pronto a dire la parola giusta.
Iniziai ad allenare insieme a Mario Blasone, una scuola dura ma formidabile e ad ogni occasione Rubini non perdeva occasione per ripeterci che a lui non interessava vincere, ma voleva che creassimo giocatori per la nazionale A.
Passammo molti giorni a Fontane Bianche, vicino a Siracusa, per la preparazione al primo Mundialito Under 20. L’albergo era sulla spiaggia, lontano da qualunque centro abitato, per cui si decise di prendere un’auto a noleggio. Fummo inviati a ritirarla, ma con gran sorpresa non risultava niente, Rubini cominciò ad arrabbiarsi e poi alla fine scoprimmo che la macchina era stata prenotata sì, ma a… Syracuse, nello stato di New York, e tutto finì in una grande risata. Un altro episodio divertente (ma mica tanto) fu quando osai passargli il sale! «Ma che napoletano sei, – disse – non si fa mai così, mettilo sul tavolo!», e io che volevo scomparire.
Quell’estate, il giorno del mio esordio da capo allenatore a Bormio, dovetti lasciare la squadra, perché morì mia mamma e lui come sempre mi chiamò con grande affetto.
Ero l’assistente della nazionale Cadetti, ma lui volle che preparassi una relazione su tutti i giocatori segnalando quelli che, a mio parere, erano da nazionale A. Ricordo che segnalai Ale Frosini, che Mario Blasone aveva scovato a Castelnuovo Berardenga, negli anni lui ricordò questa cosa.
imageIniziammo le frequentazioni nei raduni della nazionale e nelle riunioni, sempre contenute ma poche parole bastavano. L’estate del 1990 fu quella del titolo Juniores come assistente di Blasone: fu una grande esperienza per me, molto pesante perché Mario era molto esigente, al ritorno mi invitò a Positano, al Villa Murat, dove lui era solito passare una settimana di riposo settembrino, fu una esperienza bellissima, veramente un padre, mi ascoltò, commentò poco, ma cambiarono molte cose tra di noi.
L’anno successivo fui scelto come assistente di Sandro Gamba per gli Europei di Roma, una manifestazione straordinaria. Arrivammo in finale perdendo contro l’ultima nazionale della Jugoslavia unita, davanti a 15mila spettatori. Eravamo in un bellissimo hotel alle spalle del Pantheon con una macchina solo per noi con cui andavamo ad allenarci al Palaeur. Sandro e Tonino Zorzi mi chiamavano sempre “Pulicano”, ed un giorno l’autista che ci accompagnava non vedendomi chiese a Rubini: «Ma oggi il signor Pulicano non viene con noi?», seguirono una grandissima risata e sfottò per vari giorni.
Alla fine fu un trionfo e fu lui che si adoperò per trovare la medaglia per me ed un altro paio di persone che non l’avevano ricevuta.
Fu il primo a cui io telefonai quell’estate dopo la grande vittoria dei ragazzi del 1974 ai Campionati Europei Cadetti, ma come sempre lui mi riportò con i piedi a terra: alla riunione post estate mi richiamò con forza perché non avevo messo davanti a tutti la Federazione ed i suoi componenti che avevano permesso con il loro lavoro di arrivare a quel successo.
In quella riunione si discusse se far continuare il programma con i ragazzi del 1975, che per una scelta della FIBA, erano stati esclusi dagli Europei. Qualcuno suggerìdi risparmiare, ma Rubini mi chiese con il suo vocione: «di Lorenzo ma questi giocatori possono diventare buoni per la nazionale?». Alla mia risposta affermativa confermò il programma. Da quel gruppo sono arrivati, tra gli altri, Galanda, Marconato, Scarone, Damiao e altri. Nel 1993 mi chiamarono con la nazionale Militare che veniva da due anni di mancati successi, c’era il problema Moretti, che avrebbe dovuto allenarsi e giocare con la Nazionale A, io avrei dovuto vincere ma tenere fuori Paolo. Era facile perché la squadra era comunque fortissima, l’unico problema era il Colonnello Magrini che ad ogni costo avrebbe voluto Moretti. Alla fine ci riuscimmo e come sempre lui fu tra i primi a complimentarsi.
Mi piaceva sempre fargli gli auguri per il suo compleanno, anche se lui non gradiva, perché tra l’altro coincideva con il giorno dei morti, ma alla fine sapevo che era contento.
Uno degli ultimi ricordi che ho di lui è legato ad una riunione del CNA a Bologna dove venne in quanto Presidente Onorario. Volle che mi sedessi vicino a lui, era amareggiato per l’incredibile ostracismo che veniva fatto ad Ettore e per la mediocrità delle questioni proposte. Anche quella volta da lui poche parole secche che arrivarono al centro della questione, ma purtroppo alcuni dei presenti erano fatti d’acqua e fecero finta di niente.
Fu l’ultima volta che lo vidi, ci parlai a telefono alcune volte, gli ultimi anni parlavo solo con Luisella, l’adorata moglie, con cui avevo un rapporto speciale dopo il viaggio in Cina, e lei mi raccontava, accoratamente, di lui, era uno strazio per me, che con il passare degli anni sono un po’ diventato come lui, commuovendomi alle lacrime quando sento una emozione forte.
L’ultimo saluto fu, al suo funerale, non potevo mancare, arrivammo io e Dante De Benedetti, in quella enorme chiesa piena di quelli che lo avevano amato e rispettato. Fu un giorno difficile, ma uno come Rubini resta dentro.
Con il suo libro rivivo la sua storia e vorrei far conoscere ai ragazzi d’oggi quest’uomo straordinario nella sua grandezza, ma soprattutto nella concretezza di tutto ciò che ha fatto, certo che lui mi guardi da lassù.

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Willie Sojourner: la tecnica del pivot

Questo video, in bianco e nero, mostra un giovanissimo Willie Sojourner giocare nel suo college, Weber State. La tecnica del pivot, tenere la palla alta, l’uso dei perni, l’uso del tabellone, il passaggio baseball…

Willie Sojourner at Weber State

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Ettore Messina: il senso dello sport

In una intervista della passata stagione (purtroppo solo in inglese), Ettore ci parla, con grande chiarezza, del suo modo di intendere la metafora sport-vita!

Grandi sconfitte, grandi vittorie, così sono cresciuto

Tutto ebbe inizio nel settembre 1966, a casa decisero che dovevo fare sport e a me, che fino a quel momento non facevo altro che scorrazzare per il giardino, arrampicarmi, raccogliere dall’albero i cachi per lanciarli, insomma giocavo libero e tornavo a casa sporco e pieno di sbucciature, fu chiesto un parere su quale sport preferissi iniziare a praticare. “Tennis ed equitazione!” dissi, ma le mie scelte furono clamorosamente bocciate. Perché tra attività e ambienti a me familiari non erano per noi una grossa novità, e infatti la risposta di mio padre (nazionale di scherma e che di sport insomma una certa idea ce l’aveva) fu “Ne hai già fin troppo di tempo da vivere in questi ambienti, vai invece a fare uno sport diverso, conosci altre persone“.

Per caso un giorno leggo sul Mattino di una leva al Collana: “La Certus Oriens organizza corsi di pallacanestro”. La mia mamma mi accompagnò per due volte con la funicolare, ma poi dalla terza in poi mi dovetti arrangiare. Lì trovai Mimmo Infranca, il mio primo allenatore. Mio padre non venne mai ad una partita, mia madre forse sì, una volta.

Oriens Napoli 1966Gennaio 1971, partita al Mario Argento con la Partenope (loro arriveranno secondi in Italia, e noi secondi a Napoli), ma per questo derby quattro miei compagni di squadra si guardarono bene dal venire a giocare la partita in anteprima!

“In anteprima”, cioè in quegli anni si giocavano le partite delle giovanili prima dell’inizio della gara di campionato della prima squadra di serie A. Quel giorno la partita era Ignis Sud-Ignis Varese. E noi, prima dei campioni e davanti a 3000 persone, perdemmo 115-45, e tra il pubblico c’era pure la mia prima fidanzatina.

Stavamo uscendo dal campo mentre le squadre di serie A entravano, mi passarono vicino Aldo Ossola e Dino Meneghin che mi dissero: «Non sempre si può vincere…». E io, in quel preciso momento, decisi che sarei diventato allenatore. Non solo, decisi pure che sarei arrivato ad allenare la squadra di Varese, cosa però non è successa. Ma da allora il basket è diventato la mia vita.

199675_1019676659028_5831_n1978. Alleno la squadra allievi (gli Under 15 di oggi) della Partenope, giochiamo contro l’Italsider di Claudio Del Gais, loro reduci dalle finali nazionali, noi un discreto gruppo, in squadra abbiamo Massimo Zollo e Massimo Sbaragli. Alla fine perdiamo di 36 punti in una palestra dei Cavalli di Bronzo letteralmente gremita. Dopo due anni lo stesso gruppo restituisce con gli interessi quella batosta, fino ad arrivare a giocarsi le finali con una grande partita in quel di Nocera, poi persa dopo tre supplementari contro il Banco di Roma. E da lì Massimo Sbaragli diventerà uno dei più forti giocatori di basket napoletani di tutti i tempi.

 

227169_1069627587770_9514_n1990/1991. Luglio 1990, alleno  la mia prima partita internazionale con la squadra cadetti, ragazzi nati nel 1974: giochiamo contro la Grecia, in una caldissima palestra di Monza, perdiamo di quasi 40 punti. Il giorno dopo siamo di nuovo in campo, e ce la giochiamo fino alla fine. Agosto 1991, vinciamo il titolo Europeo a Salonicco surclassando proprio la Grecia,. Di quel gruppo solo tre arriveranno in nazionale, qualcuno smetterà molto presto.

 

Da sempre mi hanno insegnato a confrontarmi con il massimo livello di competizione. E da un iniziale errato senso di onnipotenza, crescendo ho imparato che nel competere c’è il segreto del crescere, che mi fa capire, al di là di sogni o di enormi aspettative, dove posso realmente arrivare.

Impariamo ed insegniamo ai nostri allievi a confrontarsi, accettando vittoria e sconfitta come dice Kipling:

(…) Se riesci a sognare e a non fare del sogno il tuo padrone;
Se riesci a pensare e a non fare del pensiero il tuo scopo;
Se riesci a far fronte al Trionfo e alla Rovina
E trattare allo stesso modo quei due impostori (…)

(…) Tua è la Terra e tutto ciò che è in essa,
E – quel che è di più – sei un Uomo, figlio mio!

leggila tutta:

http://www.piuchepuoi.it/varie/se-lettera-al-figlio-1910/

Genitori-figli: scuola, sport e responsabilità

La maniera migliore per mettere in punizione un figlio è “togliergli il basket”? Accade troppo spesso, come se la causa dei problemi scolastici fosse il tempo speso in palestra.
 
La nostra Tonia Bonacci ci aiuta:
 
«Niente palestra “per punizione”? No, non insegna nulla, e non serve neanche ad ottenere maggior impegno e risultati nello studio da parte del ragazzo. Ma questo tipo di punizione cosa significa davvero? E quale messaggio trasmettiamo ai nostri figli con questo comportamento?
13d8281In pratica non si fa altro che rendere legittimo il venir meno ad un impegno preso in precedenza coi compagni, con l’allenatore, con tutto il gruppo. Stiamo comunicando al ragazzo che “non è importante far parte di un gruppo che condivide obiettivi”. Lo autorizziamo a non osservare una regola, che prima era condivisa e accettata, e ora invece diventa priva di significato. Non gli insegniamo a prendere decisioni con responsabilità e a sapersi organizzare tempi e spazi in modo utile (nonostante poi nella vita lo si pretenda!).
Per questo da anni insistiamo su incontri di formazione per genitori, per sensibilizzarli in particolare su quei delicati temi educativi che sviluppano nei ragazzi la capacità di imparare a diventare responsabili.

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Basket, arbitri e tempi moderni

Trovo una mia nota del 2011 penso sia ancora molto attuale

Ho allenato per la prima volta nel 1974, arbitravano Nando Giordano e Gianni Montella, il primo neo promosso ed il secondo arbitro già affermato. Giocavamo all’aperto in via Petrarca nel campo pentagonale, omologato per l’occasione. Erano i primi Giochi della Gioventù, ma due arbitri esperti come loro erano pronti a spiegare ai ragazzi, oltre che a me, giovane ed esuberante allenatore, cosa fare o non fare, con grande educazione.
In un’amichevole con il Centro Basket Campano, del compianto Enrico Cascella, mi arbitrò un ragazzo ricciolino, era stato buon giocatore e che aveva deciso di fare l’arbitro: Rino Colucci.
Mi è capitato addirittura, in una partita dell’allora Trofeo Propaganda, di vedere chiusa una partita… in parità! E l’arbitro, Gianni Alberto, un amico che smise presto, quando portò il referto al Comitato Zonale (a quei tempi in Partenope), prese una clamorosa lavata di testa dal grande Gigino Ciampaglia.
Era normale vedere gli arbitri di Serie A aiutare i colleghi più giovani, e di conseguenza anche i giocatori e gli allenatori. Dirigevano le partite con grande impegno e seria volontà formativa verso tutto il movimento.

La mia prima partita con una squadra nazionale fu arbitrata da Costas Rigas, grande fischietto greco, che oggi è l’attuale Commisioner per l’Eurolega. Rigas era venuto al seguito della nazionale Under 17 per allenarsi in vista dei mondiali. Eravamo a metà luglio in un’assolata palestra di Monza.

In un torneo in Olanda con una squadra di diciassettenni (una squadra ricca di talento, e cito Marconato, Galanda, Scarone giusto per fare qualche nome), ci accompagnò Alessandro Teofili, che si unì a noi come uno scolaretto, aiutandoci a fare crescere i ragazzi giorno dopo giorno.

In serie A ho esordito con Fiorito e Martolini, diversi ma sempre capaci di farsi rispettare senza urlare. Alla fine della partita (vincemmo a Treviso, per la cronaca), furono pieni di consigli per un giovane catapultato in A1.

In Grecia vincemmo un Europeo davanti a 5000 persone con due ottimi arbitri, Jones ed un giovanissimo Araujo (che poi arrivò ai massimi livelli mondiali). Nonostante la baraonda generale, i due arbitri furono capaci di chiudere la partita senza farsi travolgere dall’isteria collettiva (e chi vuol gustarsi la chicca può trovare il video sulla mia bacheca http://youtu.be/Bu_JShL0V_0).

Erano i tempi in cui Ninì Ardito spiegava pallacanestro in Italia (attenzione, ho detto Pallacanestro, non teoria politica!!!). Solo a quelli più bravi cominciava a parlare di vantaggio o svantaggio. Oggi resto sgomento quando incontro giovani arbitri che rispondono con maleducazione e supponenza, spesso non conoscono neanche la tecnica e si trincerano dietro al “regolamento”.

Sarà il segno dei tempi, e succede un po’ anche con i miei ragazzi, ma io che sono tornato ad allenare dopo anni di teoria, provo a dare loro tutto. Provo a dare tutto utilizzando ciò che conosco, spesso con durezza ma senza paura di perdere qualcuno. Le regole devono essere chiare: si deve saper essere genitori e non fratelli, sapersi far carico del proprio ruolo.

Boscia Tanievic, una storia esemplare

Nel mio vagabondare sul web mi sono imbattuto con questa splendida chicca

Buzzer Beater Book – Storie scritte a fil di sirena di Buzzer Beater Blog

Un mini libro su Boscia Tanievic, a cui sono legato da lunga amicizia. Ricordo ancora il mio esordio nel derby a Caserta, nel novembre 1995, dopo aver vinto le mie prime partite in serie A, Boscia venne da me affettuosamente prima della partita a salutarmi.

Quante volte l’ho incontrato da allora? Una cosa ho sempre trovato in lui: sempre semplice, vero, una caratteristica dei grandi!

“SONO SOLO UNO CHE NON SOPPORTA PERDERE”

Durante la guerra che sancì la fine della Jugoslavia non era insolito per gli abitanti del Montenegro veder sfrecciare sopra le proprie teste aerei carichi di bombe. Si racconta che un giorno un pastore, alzando gli occhi al cielo e vedendo per la prima volta i bombardieri squarciare l’aria, sollevasse il bastone e cominciasse a urlare:“Finalmente un degno nemico!”Penso che questo dica tutto quello che c’è da sapere su quel popolo.Provate a chiedere di Boscia Tanjevic in giro. Forse vi accorgerete di come la storia stia gradualmente cominciando a lasciar spazio alla leggenda. Troverete chi vi dirà che ha vinto tutto. Troverete chi vi dirà che ha perso molto. Qualcuno affermerà che in più di quarant’anni di carriera è rimasto fedele a se stesso, altri vi risponderanno che lo ha pagato sulla sua pelle. Tutti, tutti, vi diranno che è un uomo che ha sempre camminato a testa alta. […]

http://www.buzzerbeaterblog.net/sono-solo-uno-che-non-sopporta-perdere/?doing_wp_cron=1421022511.9922060966491699218750

Il Coach Andrea Capobianco by Chiara Turrini

Bighellonando su Twitter mi è capitata questa bella intervista di Chiara Turrini ad Andrea Capobianco, un manifesto dell’essere Coach, questo il link: andrea Capobianco

Valerio Bianchini essere squadra in Libano

Coach Valerio Bianchini riporta la sua esperienza in Libano, sport linguaggio di pace.

Nella mia concezione del basket come viaggio, ho allenato una stagione in Libano incuriosito dal mondo arabo. Il Libano è un’incredible mosaico di religioni diverse. Due rami fondamentali, Cristianesimo e Islam, si suddividono in tante comunità diverse anche abbastanza ostili all’interno della stessa fede. Nella mia squadra avevo giocatori di diverse devozioni: cristiani, maroniti, copti ecc, e mussulmani sciiti, sunniti e di altre appartenenze, in conflitto più o meno dichiarato e tuttavia, quando quei ragazzi indossavano la maglia ed entravano sul campo di basket, ogni differenza scompariva, e restava solo lo spirito di squadra, la fratellanza sportiva, la solidarietà di appartenere a una comunità speciale che se ne fregava delle fedi diverse. Là ho capito l’importanza dello sport in tempo di pace e più di tutto l’importanza di essere “squadra”.

Siria, paese splendido, distrutto dalla guerra

Sono stato in Siria oltre 20 anni fa, per un Clinic della Cooperazione Olimpica. Una bellissima esperienza, anche se è l’unico posto in cui ho avuto paura ad andare in macchina, traffico folle, Napoli, in confronto era la Svizzera.

Sirie insiemeMa l’esperienza umana è stata straordinaria, i collaboratori della Federazione Siriana erano super disponibili. Dopo ogni lezione ero con loro, mi portavano a vedere la città, Damasco, città splendida e i suoi dintorni.
Abbiamo visitato i monasteri paleo cristiani, i mercati, una voglia di contatto emozionante! Nelle occasioni ufficiali erano molto rigorosi mentre in privato, durante le visite, avevano atteggiamenti più rilassati e confidenziali.

Il penultimo giorno mi hanno portato dal presidente della Federazione Siriana, un generale, che mi voleva portare in giro in elicottero sulle alture del Golan… Declinai l’invito, non mi sembrò il caso, ma comunque ho un ricordo splendido, di persone che avevano voglia di relazionarsi con me, di far capire che per loro il basket è un linguaggio di vita!