Ma qual è la via degli Spurs al basket?
«Una filosofia della pazienza, non saltare mai dei passi, cercare giocatori che magari altrove non hanno avuto successo e invece qui si combinano perfettamente. L’attenzione alle persone. Il senso del noi. L’incoraggiamento al dissenso».
Una bella intervista di Alessandro Pasini, inviato a San Antonio (Texas) su www.corriere.it
Nell’arena degli Spurs, in panchina con Ettore Messina mentre lì a pochi passi i campioni Nba si scaldano per il match con gli Houston Rockets. La «leggenda europea», come chiamano Messina negli States, è da quest’anno l’assistente allenatore della leggenda americana, Gregg Popovich. Due partite da solo le ha già guidate, e vinte, a novembre. E un giorno, si dice, tutto questo sarà suo.
«Se ne è parlato molto, però sinceramente credo che la successione sia lontana. Non solo con me, ma in assoluto. Popovich è bello carico e deciso a continuare».
Quelle due partite da capo allenatore – il primo non Usa della storia dell’Nba – sono però l’inizio di qualcos’altro, o no?
«È vero che tutti coloro che sono passati di qui hanno avuto la grande chance, dunque sarei bugiardo se dicessi che non ci penso. Non ora però».
E la paventata fine di uno storico ciclo dopo 5 titoli in 15 anni?
«Duncan potrebbe continuare una stagione, Ginobili anche, la squadra sta giocando bene, ne abbiamo vinte 9 di fila, siamo in entrati in forma playoff (iniziano il 18, ndr), pronti a difendere il titolo. Pensieri negativi non ci sono. Io ho tre anni di contratto: potrebbe essere interessante anche partecipare alla futura fase del rinnovamento. Questo è un club che ha strategie chiare per aprire un altro ciclo».
Nonostante le sue 4 Euroleghe, 10 campionati tra Italia e Russia, l’argento con gli azzurri agli Europei più tutto il resto, lei parla spesso di «venerazione» per Popovich.
«A volte al suo fianco mi sento piccolo».
Perché?
«Per il modo in cui prepara la partita, la cura dei dettagli, gli scenari che disegna, la freddezza di analisi: Pop è lucido persino nell’incazzatura…».
Il coach perfetto.
«Già. Tu lo senti e dici: vabbé, io sono scarso, e pazienza».
Se lo dice Messina, figuriamoci gli altri. Ma qual è la via degli Spurs al basket?
«Una filosofia della pazienza, non saltare mai dei passi, cercare giocatori che magari altrove non hanno avuto successo e invece qui si combinano perfettamente. L’attenzione alle persone. Il senso del noi. L’incoraggiamento al dissenso».
Ovvero?
«Popovich dice spesso: dammi un’opinione diversa, ne discutiamo e troviamo la soluzione. Magari a cena».
Laureato in Economia, lei nei seminari ai manager 15 anni fa insegnava che «la squadra in cui tutti si vogliono bene non esiste, e se esiste perde». La sua filosofia era già Pop prima di incontrare il maestro.
«Era così a Bologna, è così qui. Popovich discute anche con i suoi uomini carismatici come Parker, Ginobili e Duncan. Il confronto è un passaggio decisivo in ogni gruppo di lavoro».
Gli Spurs sono il tiki-taka del basket?
«Un paragone interessante. Anche per noi il passaggio è un fondamentale almeno quanto il tiro: devi sapere come, quando e a chi passare. In quel senso sì, lo siamo».
E poi siete internazionali: otto stranieri in rosa.
«Sì, ma la variabile decisiva è la continuità. Lo straniero qui non passa e va, si radica. Parker è a San Antonio dal 2001, Ginobili dal 2002. Storie lunghe. Come Danilovic a Bologna o D’Antoni a Milano».
Dalla via Emilia al Texas, secoli dopo ha ritrovato Ginobili e Belinelli.
«Curiosa la vita. Manu ha lo stesso entusiasmo di 13 anni fa. Marco lo avevo lasciato bambino e l’ho ritrovato uomo».
Lo Sperone che l’ha impressionata di più?
«Duncan».
Leonard, il migliore delle Finali 2014, potrà essere il suo erede?
«Difficile, personalità molto diverse. Però è un giocatore che ogni giorno ci sta stupendo un po’ di più».
Chi è il suo numero uno assoluto del 2015?
«Harden. Mi inquieta molto per come domina certe partite (non questa però, che i Rockets perderanno di 12 punti, ndr)».
Qual è il plus del sistema sportivo Usa?
«Meritocrazia. Quando sento parlare di quote giocatori comincio a preoccuparmi. Predeterminare così non serve, non solo nello sport».
Jordi Bertomeu, a.d. dell’Eurolega, al Corriere ha detto che il basket italiano è immobile.
«La realtà è quella, l’analisi è complessa. Concordo sulla questione palazzi: ci sono strutture bellissime ovunque in Europa tranne che da noi. Ma lo sport è lo specchio del sistema politico. In Italia c’è da tempo un chiaro problema di leadership. E se manca quella…».
Dieci anni all’estero tra Madrid, Mosca, Los Angeles e San Antonio significano…
«Sul piano lavorativo un’esperienza bellissima. Certo, l’Italia un po’ mi manca. Però penso che ormai il nostro sia diventato un meraviglioso paese dove andare solo in vacanza. E mi spiace».
San Antonio, invece, com’è?
«Mi ricorda i tempi di Treviso: molto verde, gente tranquilla, la scuola per mio figlio a 10 minuti. Città ideale».
Lei tornerebbe in Nazionale?
«Per ora c’è un eccellente allenatore e ciò che conta è conquistare l’Olimpiade. Se poi un giorno le cose dovessero cambiare e me lo chiedessero, ne sarei onorato».
Ma sarebbe possibile una gestione part time, metà in America, metà in azzurro?
«Non mi pongo adesso il problema».
Metta World Peace ha detto che la stima molto.
«Ai Los Angeles Lakers fu lui che quando mi vide la prima volta mi chiese chi avevo allenato, per capire chi fossi. Lui è un grande: un buon ragazzo al quale ogni tanto si chiude la vena».
Metta ha anche detto che gli Spurs possono rivincere il titolo.
«In corsa ci siamo di sicuro».
Metta World Peace e l’Italia: strana coppia?
«Ci serve sicuramente. Gli auguro di conservare serenità e entusiasmo fino alla fine della sua avventura».
A proposito: se pure lei dovesse cambiare nome, che cosa sceglierebbe?
«Gregorio Popovich».




